di Luca Marfé
NEW YORK – Dal dolore di Pittsburgh alla furia contro gli immigrati.  Dopo le lacrime a stelle e strisce per gli 11 morti della sinagoga, Donald Trump smette súbito i panni del buon padre della nazione e torna a vestire quelli a lui più consoni dell’agitatore di popolo. Lo fa con una certa fretta, ben consapevole di quanto alta sia la posta in gioco: la Camera, un terzo del Senato, 36 governatori ed un elevato numero di sindaci sparpagliati su tutto il territorio nazionale.
di Luca Marfé

NEW YORK – Dal dolore di Pittsburgh alla furia contro gli immigrati.  Dopo le lacrime a stelle e strisce per gli 11 morti della sinagoga, Donald Trump smette súbito i panni del buon padre della nazione e torna a vestire quelli a lui più consoni dell’agitatore di popolo. Lo fa con una certa fretta, ben consapevole di quanto alta sia la posta in gioco: la Camera, un terzo del Senato, 36 governatori ed un elevato numero di sindaci sparpagliati su tutto il territorio nazionale.

Martedì 6 novembre negli Stati Uniti si vota per le elezioni di metà mandato. Una tornata la cui rilevanza storica appare di ora in ora più tangibile. Una corsa che si preannuncia serrata e che più di qualcuno, senza girarci troppo intorno, ha definito un “referendum su Trump”.Un’etichetta affascinante, ma rischiosa. Quando si tratta di calamitare su di sé attenzioni e tensioni, infatti, il tycoon ha già dimostrato di poter stravolgere le previsioni della vigilia.

Previsioni che, nei numeri e nei sondaggi, non a caso si ridimensionano. Se fino a pochi mesi fa la cosiddetta “onda blu” dei democratici sembrava essere destinata a travolgere le oramai fragili mura dei bastioni repubblicani, oggi il quadro appare assai più incerto.

Una premessa è d’obbligo: in chiave statistica, il presidente in carica tende a perdere midterm. Un aspetto non necessariamente negativo che alle volte consente al Commander in Chief di (soprav)vivere grazie ad una narrativa politica strutturata attorno al “trucco” di avere il Congresso contro. In altre parole, incentrata sull’impossibilità di lavorare.

Essere in carica recitando la parte di chi è all’opposizione. Da qui al 2020, paradossalmente la prospettiva ideale per uno come Trump.

The Donald, però, pensa di poter fare addirittura meglio. E così, torna ad infuocare il dossier più caro a sé, ma soprattutto ai suoi elettori: quello dell’immigrazione. Che ama bollare come clandestina a prescindere.

Grida di nuovo ad un’invasione che non c’è e rilancia ancora oltre prendendo di mira persino la costituzione e lo ius soli. Bisogna fermare le carovane di stranieri, bisogna smettere di regalare la cittadinanza americana a chiunque, solo perché nato negli Usa. Parole grosse. Inaccettabili per la sinistra. Tanto gradite invece ad una destra che, al richiamo del tam-tam arancione, “rischia” di rimettersi in moto e di uscire a votare in massa.

8 Stati e 11 comizi in 5 giorni. Gli scenari possibili sono tre.

Un trionfo schiacciante che consenta ai democratici di riassumere il controllo di entrambi i rami del parlamento. Questo costringerebbe Trump all’angolo o peggio ancora al ko dell’impeachment. L’ipotesi meno probabile.

Una vittoria “ai punti” che consegni la Camera ai dem, con i repubblicani aggrappati al Senato. Un Congresso “zoppo” con cui il presidente potrebbe comunque andare lontano per i motivi sopraccitati. L’eventualità ad oggi più accreditata.

Un nuovo ceffone populista in grado di lasciare il quadro così com’è, con l’inquilino della Casa Bianca forte di una doppia maggioranza. Un colpo di scena improbabile, ma non impossibile.

Per uno che sui colpi di scena, senza sapere neanche troppo bene come, ci ha costruito un’intera carriera politica.

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