di Fabio Massimo Nicosia*

In un libro scritto tra il 2005 e il 2007 e uscito da poco, Il dittatore libertario, ho esposto tra le altre cose un modello analitico che ho definito “comunismo di mercato”, con l’ambizione di far fare la pace agli anarchici delle diverse correnti. Di cosa si tratta?

A mio avviso, a differenza di quanto ritengono gli anarco-capitalisti, la Terra nasce come res communis e non come res nullius. Ciò comporta che ogni apprensione del bene terra, ogni impossessamento, limitando la libertà degli altri (ad esempio quella di movimento o di sfruttamento del suolo comune), deve comportare una compensazione a favore degli altri, a meno che non residui tanta di quella terra da poter soddisfare le esigenze di chiunque. Tale compensazione ha i caratteri della rendita proprietaria, dato che tutti sono comproprietari, “comunisti” nell’accezione tecnico-giuridica, e costituisce quella che definisco una rendita di esistenza eguale per tutti (tutti sono comunisti “pro quota” del bene territoriale) a favore di tutti, in modo che il mercato possa svolgersi a partire da un piede di partenza egualitario e in modo tale da prevenire il pericolo che il mercato comporti differenze di ricchezza marcate. Secondo me, infatti, la rendita di esistenza avrebbe un valore particolarmente elevato, dato che la terra è abbondante nel mondo, e costituirebbe base e fondamento del free-coinage, del libero conio, di cui la terra costituirebbe provvista monetaria abbondante per tutti. Il primo passo da compiere per andare in questa direzione sarebbe iscrivere nel bilancio dello Stato il valore di mercato dei beni demaniali e delle riserve auree, in modo da far emergere le enormi ricchezze che lo Stato possiede, ma che occulta, dato che, a differenza di quanto avviene per le società private, lo Stato non è attualmente obbligato a iscrivere in bilancio il valore dei cespiti immobiliari o, appunto, aurei.

È questa, secondo me, la grande truffa dei nostri tempi, che consente ai politici di continuare nelle chiacchiere sulla “voragine dei conti pubblici”, giustificando così alta tassazione e “sacrifici” per i meno abbienti, quando invece lo Stato è ricchissimo.

Una precisazione. La materia del debito pubblico è importante anche dal punto di vista della filosofia politica pratica, dato che un elevato debito ha ripercussioni negative sia sul fronte della libertà che su quello della giustizia sociale, rendendo vana e astratta qualsiasi teorizzazione, tanto libertaria, quanto “socialista”.

Dal punto di vista libertario, infatti, ogni tassazione è un furto ai danni del lavoro onesto del cittadino. Sennonché l’attuale situazione del debito pubblico rende improbabile la praticabilità di qualunque politica di riduzione delle imposte, e i libertari non possono far altro che ripetere il loro slogan senza ottenere risultati pratici e perdendo in credibilità.

Dal punto di vista della giustizia sociale, poi, le cose vanno, se non peggio, in termini assai simili. In effetti, in vigenza di debiti pubblici di dimensioni colossali, è facile che gli Stati siano attratti da politiche di tagli alla spesa pubblica, e quindi, fatalmente, di tagli alle guarentigie dello stato sociale e del welfare. La ricetta più facile da percorrere, anche se poco fantasiosa, in periodo di alto debito pubblico è quindi più tasse e più tagli alle spese, particolarmente sentite dalla popolazione soprattutto se si tratta di spese sociali. In ogni caso, la coperta sarebbe troppo corta, dato che si potrebbe pensare di tagliare la spesa senza alzare le imposte e viceversa, mantenere alte le imposte per far fronte alle esigenze dello stato sociale, in nome di quel debito “buono” di cui parla Jacques Attali.

Nostro compito è quindi di affrontare questa sfida, per la quale, in regime di debito pubblico, la massimizzazione della libertà non vada a discapito del benessere sociale, nonché il reciproco.

D’altra parte il punto dolente del pensiero democratico è da sempre l’insoddisfacente conciliazione tra libertà e uguaglianza: come detto, quanto più la coperta si tira da una parte, tanto più l’altra resta scoperta. Il pensiero libertario, che intende massimizzare tanto libertà quanto eguaglianza dei diritti, ha un problema in più, che tutto ciò deve avvenire, possibilmente, rinunciando allo Stato e alle altre istituzioni coercitive, o quantomeno invocandolo il meno possibile.

Nella filosofia politica contemporanea, i due poli al riguardo sono rappresentati da John Rawls e Robert Nozick. Il primo affida allo Stato compiti di benessere sociale (ma allude all’ipotesi che si tratti di istituzione rinunciabile); il secondo affida allo Stato compiti di garanzia della proprietà, e quindi della libertà individuale, secondo lo schema libertarian, secondo il quale proprietà e libertà si identificano: ma poi finisce con ridicolizzare la proprietà, prendendosi scherno dei suoi fondamenti.

Altri autori hanno tentato di risolvere la questione abbinando al liberismo economico un reddito di cittadinanza variamente connotato, da Henry George a Van Parijs, fondandolo sulla proprietà pubblica della terra, quale corrispettivo della prestazione di un servizio civile (E. Rossi), o su meccanismi fiscali (M. Friedman). Tuttavia tutte queste proposte implicano la presenza dello Stato e sono malviste dagli anarchici puri o puristi. Noi stessi abbiamo fornito un contributo con il nostro lavoro sopra citato, ipotizzando una rendita di esistenza non statualmente fondata, ma si tratta di un contributo collocato al livello della filosofia politica, se non dell’utopia, anche se già proponevamo la prospettiva pratica immediata in un reddito di cittadinanza fondato sulla contabilizzazione dei beni pubblici.

Viene infatti agitato un problema di risorse, oggi aggravato dallo stato della finanza pubblica. Lo Stato, si dice, non dispone di risorse sufficienti per distribuire a tutti un pari importo, tale da garantire non solo la sopravvivenza agli ultimi, ma anche i loro decoro, dignità e benessere.

Si tratta di un inganno storico che si perpetua. Già nel 1896, Antonio Labriola scriveva infatti che, con l’evoluzione storica, lo Stato “è dovuto divenire una potenza economica”, in particolare “nella diretta proprietà del demanio”, oltre che “nella razzia, nella preda, nell’imposizione bellica”. Si trattava dell’eredità dello Stato patrimoniale, di quelli che già per Adam Smith erano i beni di sua proprietà per il sostentamento del Principe, oltre che per gli spostamenti delle truppe.

Oggi questo demanio è sterminato, ma non viene contabilizzato, oltretutto in spregio al già richiamato principio di “veridicità” del bilancio: strade e autostrade, porti e aeroporti, impianti energetici, beni storici e artistici, coste, acque territoriali, fiumi, laghi, risorse naturali degli enti locali, miniere, cave e, per accessione, rete elettrica e cavi telefonici (almeno potenzialmente), armamenti, strade ferrate, l’etere, che viene dato in concessione alle emittenti televisive per scarso corrispettivo, così come le coste vengono “privatizzate” con concessioni per pochi denari.

Eppure tutti dicono che lo Stato è “povero”, dato che ha un immane deficit di bilancio, una voragine di debiti, che non ha di che spendere: eppure stranamente quando la politica vuole lo fa.

Questi beni incarnano il potere sovrano, sono gli strumenti della supremazia, quelli che fanno di uno Stato uno Stato: però lo Stato sarebbe anche “povero”. Come ciò sia possibile merita una spiegazione, perché avrà anche una spiegazione il  fatto che lo Stato rivendica il monopolio monetario (salvo poi abdicare a un’istanza superiore, senza però intaccarne il carattere monopolistico), ma anche un’imposizione fiscale elevatissima, pur senza averne bisogno, alla quale corrispondono servizi a volte modesti, a volte faraonici, talora realizzati (si pensi ai treni ad alta velocità) talora solo petulantemente promessi (si pensi al ponte sullo Stretto di Messina).

Vige in proposito una prassi, che se vi fosse consapevolezza verrebbe ridotta a “trucchetto contabile”: il valore di quei cespiti non è iscritto nel bilancio dello Stato! Lo Stato è ricchissimo e finge di non saperlo. Si comporta come un miliardario che possiede otto ville, il quale vantasse però la propria povertà, perché delle ville vedesse solo i… costi di manutenzione.

Prevengo subito l’obiezione che la mia sia una proposta “statalista”, rinviando al mittente l’accusa: i veri “statalisti” sono coloro i quali lasciano le cose come sono, favorendo l’inganno statale sulle proprie ricchezze pubbliche: risorse naturali, spiagge, fiumi, ingentissime riserve auree, clamorosi patrimoni storico-artistici: nulla di ciò è iscritto nel bilancio dello Stato, privandone la titolarità ai cittadini, ed è per questo che sarebbe il momento di lanciare una campagna il cui slogan fosse: “Contabilize public real estate”, contabilizzate le proprietà immobiliari statali.

Ora, una volta che a tutti sia garantita una più che congrua rendita di esistenza, il mercato può perfettamente funzionare anche e soprattutto nella realizzazione dei beni pubblici, dato che intorno alla loro realizzazione si viene a creare un meccanismo di domanda e offerta che si esprime in una vera e propria votazione monetaria, per cui votano monetariamente non solo i costruttori e i favorevoli, ma anche i contrari, a differenza di quanto avviene oggi, in cui lo Stato può imporre unilateralmente ai contrari opere come la TAV o altre contestate: si pensi alle centrali nucleari. A mio parere, tale quadro penalizzerebbe e non favorirebbe la realizzazione di grandi opere, che sono sempre frutto del sostegno statale ai grandi costruttori privati, che invece, nel mio modello, vedrebbero i loro progetti sempre sottoposti al vaglio costi/benefici da parte delle popolazioni interessate. Il tentativo è dunque questo, di partire da una premessa comunista per consentire l’instaurarsi di un mercato paritario e persino democratico, pur in un contesto di coerente antistatalismo.

* Filosofo della politica di indirizzo libertario