di Luca Marfé

USE_280pxNEW YORK – Criticato, osteggiato, talvolta addirittura deriso: la verità è che Trump potrebbe passare alla Storia come una colossale chance per l’Europa di crescere, di diventare grande.

L’occasione, in realtà, è ben precedente ai recenti volteggi del tycoon ed affonda le proprie radici nei contenuti e nei toni che avevano già caratterizzato la lunga corsa alla Casa Bianca. Sin dalle prime uscite della campagna elettorale, infatti, The Donald si era contraddistinto per una dialettica e soprattutto per delle prese di posizione quanto mai distanti rispetto a quelle cui Barack Obama aveva abituato i protagonisti dello scacchiere internazionale. A fair play, sorrisi e diplomazia, Trump ha evidentemente preferito un registro diretto, quasi rude, che potesse arrivare forte e chiaro alla “pancia” del Paese e che, parallelamente, suonasse come un messaggio agli altri grandi della Terra da parte di colui che sarebbe poi effettivamente divenuto il presidente statunitense in nome dello slogan «America first», l’America prima di tutto il resto.

Certo è che le recenti tappe di Riad, Gerusalemme, Città del Vaticano, Bruxelles e soprattutto Taormina hanno finito progressivamente con il confermare questa sensazione di scollamento tra Stati Uniti ed Europa.

Il G7, in particolare, si è rivelato non soltanto un flop in chiave decisionale, ma ha evidenziato un’enorme distanza tra Washington e le capitali europee, in particolare in merito al cambiamento climatico, alla gestione dei flussi migratori, al protezionismo commerciale.

Insomma, un’America concentrata su se stessa, non più faro delle altre democrazie occidentali chiamate di colpo a fare le proprie scelte, a decidere da sé, a crescere appunto.

Da settant’anni a questa parte, la relazione con l’alleato storico è appoggiata ed è in qualche modo viziata, nella forma ma anche nella sostanza, dall’esito della Seconda Guerra Mondiale e da quel Piano Marshall che ha avuto sì il merito di risollevare il Vecchio Continente dalle macerie, ma che, allo stesso tempo, lo ha reso di fatto dipendente dalla realtà politico-economica a stelle e strisce.

E così, fatta eccezione per alcuni episodi critici ma circoscritti in un lasso di tempo molto breve (Sigonella su tutti), forse mai come in questa fase si è assistito ad una spaccatura tra Stati Uniti da un parte e Italia ed Europa dall’altra.

Una sensazione che è molto più di una sensazione, come conferma la dura presa di posizione della cancelliera tedesca Angela Merkel che, in occasione di una manifestazione politica organizzata a Monaco dal partito cristiano sociale bavarese, ha affermato senza mezzi termini di non potersi più fidare degli americani. E che, ampliando il concetto in chiave positiva, ha aggiunto: «Noi europei dobbiamo davvero prendere il nostro destino nelle nostre mani». Un’esortazione che le è valsa un lungo applauso dei presenti e che è già arrivata alle orecchie dell’altro uomo del momento, il presidente francese Emmanuel Macron. Sarà interessante capire se e come verrà raccolta proprio da quest’ultimo.

Non si illuda, infatti, il premier Paolo Gentiloni: un’eventuale rinascita dell’Europa passa in primis tra Berlino e Parigi, con i due grandi protagonisti chiamati a prendere in mano le redini di scelte nuove e di responsabilità più vaste.

Farsi portavoce, in buona sostanza, di una politica coraggiosa che possa finalmente prescindere dalle influenze americane. Soprattutto se quelle influenze fossero costrette dai repentini cambi di rotta e dalle assai poco condivisibili giravolte firmate Trump.

Può essere davvero il momento dell’Europa. Che l’Europa lo dimostri.

 

 

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