di Alessandro Campi
C’è un modo molto semplice per dimostrare quanto siano inutilmente costosi anche 600 parlamentari (tanti diventeranno in Italia dopo il referendum, da 945 che erano): basta non farli lavorare o dare l’impressione che perdano tempo senza concludere nulla. A quel punto, anche estrarli a sorte, come proposto da Beppe Grillo, rischia di essere una procedura troppo dispendiosa. Si potrebbe aggiornare una vecchia idea di Berlusconi, che una volta propose di far votare in aula solo i capigruppo,
di Alessandro Campi

C’è un modo molto semplice per dimostrare quanto siano inutilmente costosi anche 600 parlamentari (tanti diventeranno in Italia dopo il referendum, da 945 che erano): basta non farli lavorare o dare l’impressione che perdano tempo senza concludere nulla. A quel punto, anche estrarli a sorte, come proposto da Beppe Grillo, rischia di essere una procedura troppo dispendiosa. Si potrebbe aggiornare una vecchia idea di Berlusconi, che una volta propose di far votare in aula solo i capigruppo, e immaginare una Camera e un Senato dove siede un solo rappresentante per partito: 8-10 parlamentarti al massimo. Tanto, per quello che hanno da fare, volendo pensare come pensa il popolo quando è in preda ai cattivi umori.

Finita la campagna elettorale e conteggiati i voti nelle urne, la parola d’ordine doveva essere una sola, categoria e impegnativa per tutti: ripartire (e ripartiremo). In realtà, tutto appare bloccato e in ritardo. Il Parlamento non è chiuso ma è come se lo fosse. Non c’è provvedimento, da tempo annunciato come improcrastinabile e necessario, che non sia stato nel frattempo sospeso o rimandato. Nessun certezza sui tempi di discussione e approvazione del nuovo codice della strada (il tempo di fare capolino in aula ed è subito stato rispettivo in Commissione Trasporti per approfondimenti e verifiche). Della riforma della giustizia, presentata come “epocale” dal ministro Bonafede, nemmeno a parlarne: esistono linee guida e buone intenzioni, ma manca ancora un testo organico sul quale confrontarsi.

Quanto alla legge elettorale, che sembrava la più urgente delle urgenze dopo la vittoria del Sì al referendum, è già finita su un binario morto in attesa che i partiti (quelli di maggioranza in testa) trovino un qualche accordo che evidentemente non esisteva. Sempre a proposito di referendum, ci sarebbe da modificare con vera urgenza i regolamenti parlamentari per adattarli alla futura composizione numerica della Camere: revisioni complesse dal momento che debbono essere approvate a maggioranza assoluta e con il voto segreto. Ma anche su questo versante, si è in ritardo sulla tabella di marcia (ancora non è stato nominato il comitato ristretto in seno alla giunta che dovrebbe istruire la riforma).

Infine, la legge sullo sport: in gestazione faticosa da almeno cinque mesi, è stata brutalmente stoppata dopo le critiche che le sono piovute addosso dal Comitato olimpico internazionale e dalle stesse federazioni sportive nazionali.

In questo gioco fatto di ritardi, rinvii e blocchi repentini ci si mette, ad acuire il senso di precarietà e incertezza già assai diffuso, anche il governo. Entro il 27 settembre (cioè due giorni fa) avrebbe dovuto presentare al Parlamento, stando agli annunci e agli impegni presi, la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (la cosiddetta Nadef). Bene, non lo ha fatto, forse lo farà entro il prossimo venerdì. Mi raccomando, senza fretta.

Le cause che spiegano questa situazione sono naturalmente diverse. Testi scritti male e messi a punto senza un adeguato confronto con le parti interessate ai provvedimenti e sui quali bisogna ogni volta rimettere le mani. Un eccesso di fretta che notoriamente non è mai una buona consigliera. I numeri ballerini della maggioranza soprattutto al Senato, che rendono rischioso il cammino parlamentare di qualunque legge minimamente controversa. Ma soprattutto mettiamoci un governo che sta in piedi solo grazie agli equilibrismi di chi lo guida ma che non ha – forse perché non può avere – un indirizzo politico unitario, condiviso e coerente.

L’idea che i voti del Partito democratico e del M5S si possano e si debbano sommare per rendere più forti e invincibili entrambi è un’amenità algebrica sfuggita a Nicola Zingaretti nell’entusiasmo – nemmeno troppo giustificato – del dopo elezioni. Laddove, in politica, non è la somma che fa il totale, ma la qualità (e coerenza) del progetto politico complessivo che ci si propone di realizzare. Questo governo è nato per non dare i pieni poteri a Salvini. Ora che Salvini è stato depotenziato dagli elettori (dopo esserlo stato dai sondaggi), e ora che i pieni poteri è lo stesso Salvini a non volerli, che si fa? Quale ragione politica profonda giustifica il permanere del governo giallo-rosso? I quattrini in arrivo dal Bruxelles? Le grandi manovre sul nome del prossimo Capo dello Stato? L’emergenza eterna prodotta dalla pandemia? Il desiderio di durare tanto per durare?

Prendersela comoda, rinviare in attesa di tempi migliori, temporeggiare e fischiettare invece che scegliere non è, beninteso, una novità o invenzione di questo governo. E’ un male antico della politica italiana, cronicamente affetta da indecisionismo. Vuoi perché decidendo si rischia sempre di sbagliare o di scontentare qualcuno: dunque meglio non farlo se non costretti dalle circostanze. Vuoi perché non decidendo oggi si può sempre dare l’impressione di voler decidere domani: che è poi un modo cinicamente efficace per allungare la propria carriera politica a scapito dell’interesse generale.

Quanto sia vecchio il vizio (diffuso da ben prima che Andreotti trasformasse il tirare a campare in un metodo di governo) lo si capisce leggendo Machiavelli, che ai capi della sua Firenze, tra le molte colpe, imputava soprattutto quella di prendersi il “benefizio del tempo” (vale a dire di temporeggiare) anche quando la contingenza politica avrebbe richiesto ai vertici della Signoria ben altra velocità di azione e decisione. La cosa peggiore, aggiungeva l’autore del Principe, è che si pretende di spacciare per prudenza (una nobile virtù) quella che è invece mancanza di responsabilità e paura delle proprie azioni (un vizio imperdonabile).

La piccola differenza, rispetto a questi precedenti remoti e recenti, è che nel frattempo c’è stata una pandemia, con quel che ne è conseguito: morale collettivo sotto i tacchi, crollo della produzione e dei consumi, conti pubblici sull’orlo del collasso, paura del futuro, ecc. Da qui l’imperativo della ripartenza, l’importanza cioè di mandare segnali chiari e forti ai cittadini, prima che il circolo vizioso della sfiducia, favorito dalle promesse troppo spesso disattese e dagli annunci di riforme che non si realizzano mai, diventi inarrestabile.

Fino alla settimana scorsa, si è tergiversato su tutti i fronti politicamente caldi in attesa di conoscere il responso delle urne. Ora, vale per il parlamento come per il governo, non ci sono più alibi. Ieri il premier Conte, consapevole del problema per la parte che riguarda il suo esecutivo, ha voluto smentire che ci sia un ritardo nella preparazione dei progetti che dovranno essere eventualmente finanziati attraverso il Recovery Fund. Ma è parsa una difesa d’ufficio, in attesa di prove più concrete e tangibili, mentre gli italiani aspettano senza farsi troppe illusioni e l’Europa ci osserva col solido disincanto.

  • Editoriale apparso su “Il Messaggero” (Roma) e “Il Mattino” (Napoli) del 29 settembre 2020

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