di Maurizio Serio
I discorsi degli addetti ai lavori e della gente comune si fanno convulsi e apocalittici in questo caldissimo mese di luglio. Non aiuta neppure evitare i mezzi pubblici, luogo per antonomasia del brontolio nazionale, perché ci sono pur sempre i social, dove però la temperatura rimane alta. Mi riferisco all’insinuazione sempre più frequente del timore di una deriva autoritaria di questo Paese, a fronte della linea decisionista, almeno a livello retorico,
di Maurizio Serio

I discorsi degli addetti ai lavori e della gente comune si fanno convulsi e apocalittici in questo caldissimo mese di luglio. Non aiuta neppure evitare i mezzi pubblici, luogo per antonomasia del brontolio nazionale, perché ci sono pur sempre i social, dove però la temperatura rimane alta. Mi riferisco all’insinuazione sempre più frequente del timore di una deriva autoritaria di questo Paese, a fronte della linea decisionista, almeno a livello retorico, ostentata dal governo su temi quali l’immigrazione, la libertà di stampa, la sicurezza interna e le relazioni internazionali.

Gli hashtag muscolari che riempiono dunque le dichiarazioni ufficiali e ancor più quelle ufficiose di questa strana maggioranza generano specularmente toni allarmati e contenuti allarmanti da parte di osservatori che pur appartengono a vari strati della società civile. O di quello che ne rimane, dopo la fuga nel privato di generazioni una volta impegnate e coinvolte attivamente nel discorso pubblico.

Tra gli intellettuali, in particolare, trovo ben radicata una tendenza storicistica, immanente al DNA nazionale, che pretende di leggere nell’attuale contingenza gli stessi segni che portarono al disastro della Repubblica di Weimar. A livello metodologico va premesso che sul ragionamento per analogia andrebbe per principio apposta un’etichetta “handle with care”, tanto più che l’elenco dei corsi e ricorsi si affolla curiosamente quando gli osservatori necessitano di alibi per la mancanza (colpevole?) di categorie interpretative nuove. E’ accaduto col paragone forzato fra Berlusconi e Mussolini agitato da tanta pubblicistica anche colta; o con la recente crisi economica mondiale assimilata, almeno inizialmente, ad una Grande Depressione 2.0. Sospetto che questo attaccamento ad una concezione ciclica degli eventi sia diventato una sorta di superstizione dei colti, che trovano banale e demodé rassegnarsi a una visione lineare della storia, una volta che hanno dovuto abbandonare il mito liberaldelle magnifiche sorti e progressive a fronte di dolorose smentite nei quattro angoli del globo.

Ad ogni modo, il punto è la tenuta della nostra Costituzione democratica di fronte alle spinte esogene ed endogene cui è quotidianamente sottoposta dalle burocrazie sovranazionali non meno che da fazioni movimentiste e agguerrite. Il dispositivo della sovranità è manipolato ora dalle prime, ora dalle seconde, in maniera antitetica: da un lato, come invito ad abbandonare l’illusione di poter ancora perseguire un interesse nazionale; dall’altro, quale monito a conservare una (rendita di) posizione sullo scacchiere della politica di forza dell’era Putin-Trump. Ma la Costituzione, ancorché logorata, è al tempo stesso straordinariamente resiliente. Forse perché presenta un equilibrio di poteri deboli che, magari difettando di governabilità, rende tuttavia impervio il prevaricare dell’uno sugli altri. Una sorta di checks and balances al ribasso, che però ha dato prova di sé in frangenti forse obliati della vita repubblicana recente. Come altro interpretare i clamorosi insuccessi dei tentativi di golpe autoritari degli anni ’60 e ’70, degli attentati mafiosi, dei servizi deviati? Inoltre, va ricordato come la nostra Costituzione, anche in virtù della giurisprudenza della Corte costituzionale, non si sia mai trovata completamente sguarnita davanti agli assalti delle opposizioni antisistema. E non lo è stata neppure di fronte agli “eccessi di zelo” della magistratura inquirente degli anni Novanta, che pure hanno condotto a quella nuova fase chiamata convenzionalmente Seconda Repubblica. Una nuova fase, appunto, non un cambio violento di regime.

Vero, c’è anche chi ha interpretato come violenza istituzionale quella operata dal presidente Napolitano nell’imporre di fatto al Paese dei governi non eletti. Quello di Monti è stato la madre dei sovranismi perché preceduto dal giochino mediatico dello spread, che ha posto sotto stress l’opinione pubblica, e seguito dalla diffusa percezione di una perdita di credibilità internazionale consumatasi sull’asse Merkel-Sarkozy (che in questa occasione, così come nella guerra di Libia, si mossero come i proverbiali elefanti nella cristalleria). Tuttavia il meccanismo costituzionale non si è infranto neppure allora, per consegnarsi nelle mani di una nuova maggioranza, eletta democraticamente e non per alchimie presidenziali. Certo, una cosa bisogna riconoscerla, qualunque parte si sia presa nell’acceso dibattito referendario del dicembre 2016. La riforma costituzionale voluta dall’allora premier come un plebiscito su di sé, se approvata, avrebbe inferto un vulnus importante a questa costruzione democratica resiliente. Come un soffio di vento su una pila di carte in precario equilibrio. E in mano alla maggioranza sbagliata (non dico quale perché il popolo è sovrano), forse avrebbe potuto persuaderci a dare una risposta differente e positiva all’interrogativo espresso nel titolo. Ma, come quella storicistica, anche l’ipotesi controfattuale può essere uno stereotipo interpretativo sacrificabile davanti alle urgenze del tempo presente.

 

Una postilla. Se proprio si vuole citare Weimar, almeno lo si faccia riprendendo la riflessione di uno dei suoi esponenti più ragguardevoli – e al tempo stesso uno dei suoi maggiori critici –, il grande giurista berlinese Gerhard Leibholz. Ho avuto modo di conoscere la sua opera grazie alle appassionanti lezioni universitarie di diritto costituzionale comparato di Fulco Lanchester alla Sapienza. Quando si potevano ancora inserire dei classici fra i testi d’esame senza scandalizzare gli studenti, la lettura de “La dissoluzione della democrazia liberale in Germania e la forma di Stato autoritaria” mi ha accompagnato anni fa in un’estate non meno calda di questa, e non ha poi smesso di cercare un confronto con letture esperite e fenomeni comparsi successivamente.

Nel mentre denunciava i rischi della presidenzializzazione e della ricerca dell’uomo forte consacrato per via plebiscitaria, Liebholz invitava ad arginare l’impatto delle forze antisistema attraverso dispositivi di ampliamento della democrazia interna dei partiti ma anche tramite un ancoraggio a valori trascendenti che combattessero la “metafisica politica” dello Stato totale, e la sua pretesa di sacralità. Ecco, questo sarebbe uno spunto in grado di accomunare gli sforzi di chi sa coniugare una visione religiosa dell’esistenza con le regole laiche del costituzionalismo liberale. Ma c’è ancora spazio nel nostro Paese per questa cultura politica?

 

Articolo apparso su ‘Tocqueville-Acton. Centro studi e ricerche © https://tocqueville-acton.com/

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