di Alessandro Campi
In un Paese intriso di cultura anti-borghese, l’attivismo politico della borghesia ha sempre ingenerato il sospetto di pericolose trame classiste contro i lavoratori o dato il pretesto per rappresentazioni caricaturali di una fetta di società che si immagina preoccupata soprattutto di come vestirsi per andare al ristorante o di quale località scegliere per le proprie vacanze (mentre il popolo, va da sé, tira la cinghia).
Gli intellettuali italiani, d’estrazione in prevalenza borghese e piccolo-borghese,
di Alessandro Campi

In un Paese intriso di cultura anti-borghese, l’attivismo politico della borghesia ha sempre ingenerato il sospetto di pericolose trame classiste contro i lavoratori o dato il pretesto per rappresentazioni caricaturali di una fetta di società che si immagina preoccupata soprattutto di come vestirsi per andare al ristorante o di quale località scegliere per le proprie vacanze (mentre il popolo, va da sé, tira la cinghia).

Gli intellettuali italiani, d’estrazione in prevalenza borghese e piccolo-borghese, dunque portati all’autodenigrazione per timore d’apparire megafoni ideologici del loro ceto, sono stati specialisti nel costruire simili stereotipi negativi. Se altrove il borghese è stato considerato un produttore di ricchezza (per sé e gli altri) proprio in virtù della sua noiosa ripetitività e del suo senso del dovere talvolta maniacale, nell’Italia sempre a caccia di sensazioni e dominata dagli umori se n’è fatto un tipo umano retrivo, segnato dall’egoismo e dalla tendenza al bigottismo. Una deformazione che ha segnato tutte le culture politiche del Novecento italiano – dal fascismo al popolarismo cattolico, passando per il comunismo – e che oggi si ritrova nel grillismo politico-giornalistico (l’anti-borghesismo è ciò che ancora oggi unisce tutti i populismi).

Accade così, per limitarci alla cronaca di queste settimane, che se sette signore della buona società torinese si mettono a capo di una manifestazione a sostegno della Tav,  per guidare la protesta dei produttori contro una politica che inibisce lo sviluppo e gli investimenti, si tenda a delegittimarle (e dileggiarle) come “madamine” annoiate ignare della materia che trattano o, peggio ancora, come agenti involontari di un sistema di potere che dietro le parole d’ordine della crescita nasconde in realtà la difesa dello status quo affaristico o chissà quali altri loschi intenti.

Ma la storia insegna che quando i ceti borghesi si mettono autonomamente in moto, in polemica proprio con chi dovrebbe politicamente rappresentarli, ne scaturiscono rivoluzioni sociali più serie di quelle realizzate dal popolo quando assalta le barricate e impicca qualche nemico di classe. Che è la regione per cui quello che sta succedendo in Italia da qualche settimana (e quello che è accaduto nei giorni scorsi a Torino, con la riunione di tremila esponenti delle categorie produttive per chiedere al governo politiche di rilancio economico) andrebbe seguito con maggiore interesse. Per ciò che ci dice su come è cambiata la politica nell’epoca segnata dalla fine dei partiti di massa e su come potrebbe cambiare ancora nel contesto della crisi crescente dei tradizionali canali di rappresentanza.

Cosa fare quando la politica smette di ascoltare la società (per eccesso di autoreferenzialità) o scopre di non avere più gli strumenti per farlo? Si punta sulle promesse di rinnovamento di un nuovo attore politico, che si annuncia più ricettivo dei precedenti. Ma nel caso una simile strategia dovesse fallire l’unica soluzione è organizzarsi in proprio.

E’ quanto accaduto in Italia negli ultimi anni. Malamente conclusosi il ciclo berlusconiano, il mondo professionale-imprenditoriale, appunto in senso lato borghese, per definizione più attento alle questioni dello sviluppo economico e più interessato al buon funzionamento della macchina burocratico-statale, ha inizialmente strizzato l’occhio all’esperimento dei governi tecnici, confidando in una politica all’insegna finalmente del buon senso e del pragmatismo. Ma prima Monti poi Letta hanno invece dato l’impressione di perseguire il rigore contabile (così come richiesto dall’Europa) senza però alcuna idea strategica su come rilanciare il sistema economico-produttivo nazionale.

Gli stessi ambienti hanno quindi visto in Renzi una sinistra attenta, oltre che alla giustizia sociale e all’eguaglianza, anche al merito e alla crescita. Ma l’idillio col segretario del Pd si è rotto per le stesse ragioni che avevano prodotto il disincanto verso la “rivoluzione liberale” del Cavaliere: troppi annunci e poche realizzazioni, una retorica modernizzatrice che nascondeva in realtà il permanere di antiche incrostazioni ideologiche, una visione eccessivamente personalistica del potere che invece di favorire il dialogo con le parti sociali tendeva a delegittimarle in quanto fautrici di una visione corporativa della società superata dalla capacità del leader di dialogare col popolo senza filtri.

Ne è nata una frustrazione che, complice l’avvitarsi del Pd nelle lotte intestine, ha finito per dirottarsi, anche con intenti punitivi verso le promesse inevase dai governi precedenti, sul mondo grillino e, in parte, leghista. Ma anche quest’ultimo atto di delega non sembra aver funzionato per svariate ragioni. I pregiudizi nei confronti delle grandi opere infrastrutturali, dettati da un ambientalismo basato sul mito infantile della decrescita felice. L’idea, tipica del democraticismo grillino, che il dilettantismo del cittadino (magari nel frattempo divenuto ministro) sia da preferire alla competenza del tecnico (sospetto per definizione di appartenere ai poteri forti).  Scelte di governo, come quelle contenute nella Legge di stabilità, improntate in larga parte a logiche assistenzialistiche e alla redistribuzione, in cambio di consenso, d’una ricchezza nazionale che non si capisce da chi venga prodotta. Un anti-europeismo irrazionale e rumoroso che non promette nulla di buono per i risparmi dei cittadini e l’attività delle imprese.

Dopo averle provate tutte non restava che auto-organizzarsi e battersi in prima persona per gli interessi (legittimi) di cui si è portatori. Che è appunto quello che sta succedendo: un pezzo di società che politicamente si mette in proprio e prova a rappresentarsi da sola, senza più deleghe a forze politiche che sembrano aver dimenticato cosa significhi governare, ascoltando e mediando, una società complessa e articolata.

I social media oggi favoriscono nuove forme di soggettività politica collettiva. Quando c’è da scendere in piazza per protestare in maniera violenta, come sta accadendo in Francia. Oppure quando c’è da dare corpo a istanze ed esigenze che un tempo, in mancanza di un partito disposto a farsene carico, sarebbero rimaste confinate in una sfera ristretta. Ieri a Torino non si è raggrumata una nuova forma di opposizione politica in attesa del prossimo leader. Ma non si è nemmeno mobilitata la società civile cara alla sinistra, quella che va in piazza per le grandi cause etiche ed umanitarie. L’impressione è che si sia compattato – per farsi sentire su temi concreti: lavoro, efficienza della burocrazia, infrastrutture – un blocco sociale che naturalmente non può parlare a nome di tutti (questa è invece la pretesa dei populisti: la parte che vuole interpretare il tutto) ma che di certo rappresenta un segmento sociale (ed economico) fondamentale per il futuro del Paese.

Che tutto ciò stia accadendo a Torino naturalmente non è un caso. E’ la città d’Italia dove storicamente la borghesia (piccola, media e grande) non è stata solo una classe economica, ma anche uno stile di vita e una mentalità. Improntati all’operosità sul lavoro, al senso del dovere e alla disciplina, ma anche i borghesi, nel loro piccolo, ogni tanto si incazzano…

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