di Alessandro Campi
Se il carattere delle persone risalta dai particolari, quello di Maurizio Molinari – direttore della “Stampa” di Torino dal gennaio 2016 ed autore del recente Perché è successo qui. Viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa (La Nave di Teseo, Milano, 2018, pp. 122) – sta in una cifra riportata nel suo libro: 197.018. Sono i chilometri percorsi girando l’Italia da quando ha assunto il nuovo e prestigioso incarico.
di Alessandro Campi

Se il carattere delle persone risalta dai particolari, quello di Maurizio Molinari – direttore della “Stampa” di Torino dal gennaio 2016 ed autore del recente Perché è successo qui. Viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa (La Nave di Teseo, Milano, 2018, pp. 122) – sta in una cifra riportata nel suo libro: 197.018. Sono i chilometri percorsi girando l’Italia da quando ha assunto il nuovo e prestigioso incarico. Tale maniacale precisione nel calcolo delle distanze è segno evidente di una personalità intellettualmente scrupolosa, amante del dettaglio, portata all’osservazione minuziosa delle cose.

Ciò che gli ha consentito, annotando fatti e raccogliendo dati, di misurarsi con un enigma storico-politico difficile da spiegare: come mai un Paese incline alla moderazione e governato da forze centriste per tutto l’arco della sua storia repubblicana si è reso protagonista, il 4 marzo 2018, di un’autentica rivoluzione elettorale? Secondo alcuni osservatori, portando al governo M5S e Lega, nel segno di un cambiamento tanto radicale quanto vago, gli italiani avrebbero soltanto confermato la loro immaturità democratica e quell’inclinazione all’avventurismo, frutto di un intrinseco anarchismo, che già in altre occasioni si è rivelata fatale per la loro vita collettiva.

Ma le interpretazioni moraleggianti e in chiave di psico-storia, sebbene Molinari operi in quella Torino dove si è formato il paradigma culturale sull’esistenza di un’Italia barbara e incolta in perenne lotta con quella civile e virtuosa ma ahimé minoritaria, lasciano ormai il tempo che trovano. Prendersela con le tare secolari dell’antropologia italica quando tutto in tutto il mondo il populismo dilaga e la democrazia parlamentare arranca è una forma di provincialismo filosofico, con buona pace di Gobetti e dei suoi eredi.

Da qui il bisogno di altre e più convincenti chiavi di spiegazione, se si vogliono comprendere il collasso degli attori politici tradizionali, la fiducia incondizionata che la maggioranza degli italiani oggi mostra nei confronti di Salvini e Di Maio, ovvero la fascinazione perversa e suicida esercitata su questi ultimi da un autocrate come Putin.

L’analisi svolta da Molinari dei fattori storico-sociali che hanno prodotto lo smottamento in corso è convincente, laddove indica come cause della protesta contro l’establishment al potere fattori oggettivi, e non solo generiche paure, quali le crescenti diseguaglianze economiche e sociali, una politica immigratoria che non riesce a tradurre l’accoglienza in integrazione, il perdurare nei gangli dell’amministrazione pubblica di una corruzione endemica, la miopia dei vertici europei con le loro politiche improntate al rigorismo finanziario e contabile.

Quanto basta per spiegare (senza ovviamente giustificarla) la rivolta del ceto medio e l’affermarsi del cosiddetto sovranismo. Che è una forma, osserva giustamente Molinari, di nazionalismo tribale e regressivo, tutto giocato sulla chiusura delle frontiere e sull’ossessione identitaria. Ma attenzione, mentre si critica con buone ragioni il nazionalismo disgregatore odierno, a liquidare la nazione come idea politica e a considerare le appartenenze collettive come una forma culturale regressiva, incompatibile col soggettivismo contemporaneo. Un errore che i liberali spesso commettono in buona fede, ma che Molinari evita allorché sostiene che la forza dei populisti dipende in gran dalla debolezza e dall’arrendevolezza dei moderati, ovvero dal loro aver fatto di alcuni temi scottanti e molto sentiti dai cittadini – il timore dell’Islam, la competizione economica con i migranti, l’Europa come insieme di regole privo di passioni,  appunto la paura di perdere l’identità nazionale – dei tabu culturali, sino a lasciarne il monopolio propagandistico ai populisti.

Un’ultima questione. Se, come ricorda Molinari, l’Italia è un Paese moderato e prudente, non perché tenga al proprio passato e alle tradizioni ma per paura che muovendo lo status quo si possano perdere i privilegi acquisiti e le rendite di posizione ereditate, ne consegue che la rivoluzione cui stiamo assistendo probabilmente finirà, per così dire, all’italiana: con il popolo pronto a voltare le spalle ai suoi attuali demagoghi – oggi amati, domani prontamente rinnegati – non appena si toccheranno i suoi interessi diretti o si cercherà di fare (anche se non sembra questa l’aria) qualche seria riforma.

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