di Chiara Sirianni 

The Permanent CampaignNel 1980 Sidney Blumenthal pubblicò negli Stati Uniti The Permanent Campaign, un lavoro in cui, il noto consulente di quello che qualche anno più tardi sarebbe diventato il presidente Bill Clinton, definì il concetto di campagna elettorale permanente come “l’ideologia politica della nostra epoca”. Un’idea del tutto in linea con le tendenze che in quegli anni si stavano affermando soprattutto oltreoceano e che confermava ciò che già il giovane consulente di Jimm Carter, Patrick Caddell, aveva affermato cioè che “governare con il consenso pubblico richiede una campagna elettorale continua”. Ma cosa vuol dire oggi campagna permanente? Soprattutto, cosa vuol dire in Italia?

Per prima cosa è necessario abbandonare definitivamente l’idea che la campagna elettorale sia un momento temporale isolato e circoscritto orientato all’ottenimento del consenso e intendere attività di governo e campagna elettorale due parti concomitanti di un connubio indissolubile. Questo perché oggi governare è soprattutto comunicare, perché “se non sei sulla stampa non esisti” e perché l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione (in particolare i social network) ha offerto agli attori politici la possibilità di interagire direttamente con il proprio elettorato talvolta senza la mediazione dei tradizionali mass media. In quest’ottica sono i consulenti politici a fare da perno a tutto il processo comunicativo. Gli spin doctor, specialisti ed esperti della materia, disegnano le strategie per mantenere vivo e alto il consenso, imprimono al messaggio il c.d. effetto spin tanto da divenire risorse preminenti nell’intero processo e rendono l’azione comunicativa altamente professionalizzata. Un lavoro di una simile portata non può quindi prescindere dall’utilizzo dei principali new media. Ecco allora che marketing politico e comunicazione digitale diventano risorse imprescindibili dell’intero discorso politico e lo alimentano di giorno in giorno. Oggi poi, la campagna elettorale diventa sempre più digitale. Il web è la nuova agorà, una piazza virtuale in cui confrontarsi in modo diretto e immediato con gli elettori, uno strumento dalle mille opportunità e dalle mille insidie perché, se usato in modo scorretto e avventato, può sortire un effetto boomerang devastante per l’immagine e la reputazione di un leader politico.

È certamente vero che le nuove tecnologie offrono oggi la possibilità di una comunicazione capillare e costante. Si pensi all’utilizzo degli smartphone che permettono la fruizione delle informazioni in qualunque luogo e a qualsiasi ora. Personalizzare il messaggio in base al target di riferimento consente quindi agli attori politici di monitorare il proprio elettorato e di carpirne le esigenze e le aspettative. Allo stesso modo gli attori politici possono oggi più che mai parlare direttamente al pubblico senza mediazione alcuna: i social media sembrano quindi essere la nuova frontiera della comunicazione politica. Twittare in tempo reale un messaggio, un’immagine e un video rende il leader alla portata dei suoi follower, lo rende reale e lo avvicina agli elettori che possono autonomamente e immediatamente inviare i loro feedback, rispondere, commentare. È tuttavia evidente che nulla può essere lasciato all’improvvisazione poiché aprirsi ai commenti significa anche accettare il rischio di essere pubblicamente criticati o talvolta attaccati. Il web infatti non dimentica e spesso una reputazione creata in Rete diventa estremamente difficile da modificare, per questo è fondamentale conoscere il linguaggio e parlare la stessa lingua del popolo di Internet. Accade quindi che a filtrare la comunicazione ci pensano i c.d. opinion leader: giornalisti, blogger e opinionisti che influenzano il pubblico e ne orientano l’interpretazione del messaggio.

La campagna elettorale permanente si autoalimenta, ciò significa che vincere le elezioni pone costantemente nuove sfide per mantenere alto il consenso. Non bisogna dimenticare che il contesto in cui ciò avviene vede oggi il sistema dei partiti politici fare i conti con una profonda e irreversibile crisi strutturale e identitaria. Venuto meno il senso di appartenenza degli elettori con i principali partiti di riferimento, venuti meno i tradizionali frames della partecipazione politica, venuta meno la storica differenza destra-sinistra, a fare la differenza oggi più che mai sono i leader che si nutrono di una perenne presenza di sé stessi sui mass media: governare è comunicare, strutturare quella che Blumenthal nel già citato testo chiama ingegneria del consenso, ossia “creare le condizioni adeguate per promuovere il prestigio pubblico del leader sviluppando il massimo controllo possibile sui fattori che influenzano la popolarità e investendo il capitale di approvazione così ottenuto per condizionare il processo di policy making”. Il leader, dunque, parla attraverso i mass media sfruttandone le opportunità: è quello che si definisce going public ed è proprio la capacità di gestire i mass media (il media management) a fare la differenza.

Ma come sempre in Italia il dibattito assume forme e toni diversi. Facciamo i conti con una pesante eredità lasciata dal ventennio berlusconiano in uno scenario in cui i partiti faticano a recuperare la loro identità e la loro dimensione partecipativa. Questi grandi contenitori di identità politiche a stento riescono oggi a portare alle urne gli elettori e a stimolarne la partecipazione attiva alla vita politica della collettività. La concentrazione del potere mediatico che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni il sistema dei mass media nel nostro Paese ha spaccato in due l’opinione pubblica radicalizzando le diverse posizioni e spingendo gli elettori a schierarsi a favore o contro Berlusconi. Negli anni, questa tendenza ha trasformato anche la politica di casa nostra in una sorta di show televisivo in un clima di campagna elettorale permanente. La crisi economica ha inoltre acuito il problema poiché ha spinto gli attori politici a fare promesse ai propri elettori in un circolo vizioso senza sosta e talvolta scenario di pura demagogia. Un secco e deciso “no” alla campagna permanente è arrivato dal Presidente della Repubblica nel settembre 2013. Giorgio Napolitano, durante una visita al carcere napoletano di Poggioreale, ha lanciato un duro monito ai partiti italiani sostenendo che “non abbiamo bisogno di campagne elettorali a getto continuo, ma di risolvere i problemi concreti e di continuità”. Napolitano ha così focalizzato il rischio reale della campagna permanente ossia quello di trascurare le concrete esigenze imposte dall’agenda politica a favore di scelte propagandistiche che di volta in volta assecondino questo o quell’elettorato alimentando al contempo il clima di instabilità politica. Un rischio che lo stesso premier Enrico Letta ha definito “rumore di sottofondo del caos politico” che distoglie l’azione governativa dalle reali esigenze riformatrici che oggi si pongono dinnanzi al c.d. Governo delle larghe intese. Campagna elettorale permanente significa in Italia fare i conti con un perenne clima di instabilità politica come se la crisi fosse quotidianamente alle porte. Basti pensare alla questione Imu tanto per citarne una. Campagna elettorale permanente significa in Italia provare a conquistare oggi gli elettori del Pd domani gli elettori di Fi e così via, il tutto a discapito di una politica fatta di contenuti, informazione e dibattiti costruttivi. Un vero e proprio rischio per un esecutivo debole.

 

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