di Alessandro Campi
Molti nemici, molto onore. L’importante è non esagerare, specie quando non si hanno le spalle grosse e i conti a posto. Dire che l’Italia è politicamente isolata sulla scena internazionale (come forse mai è stata nella sua storia recente), e dunque politicamente debole, suona come voler dare addosso ad un governo che di difficoltà e problemi ne ha già molti. Gran parte dei quali, beninteso, imputabili più alle incomprensioni e ai dissidi esistenti tra i due alleati,
di Alessandro Campi

Molti nemici, molto onore. L’importante è non esagerare, specie quando non si hanno le spalle grosse e i conti a posto. Dire che l’Italia è politicamente isolata sulla scena internazionale (come forse mai è stata nella sua storia recente), e dunque politicamente debole, suona come voler dare addosso ad un governo che di difficoltà e problemi ne ha già molti. Gran parte dei quali, beninteso, imputabili più alle incomprensioni e ai dissidi esistenti tra i due alleati, che al pressing duro delle opposizioni.

In realtà non si tratta di un giudizio frutto di un pregiudizio, tipico solitamente della sinistra, bensì di un tema maledettamente serio, che ieri è stato riconosciuto, seppur indirettamente, dallo stesso Salvini. Allorché ha indirizzato al premier Conte la richiesta di nominare al più presto un nuovo ministro per le politiche comunitarie: la poltrona rimasta vacante dopo il passaggio del prof. Savona alla Consob e che Conte ha tenuto per sé come delega sin qui inerte.

Da un lato questa richiesta è certamente l’inizio di quella ‘strategia del rimpasto’ vagheggiata a mezza bocca dalla Lega dopo la vittoria elettorale dello scorso 26 maggio.  Dall’altro è però la presa d’atto, realistica anche se tardiva, che l’Italia, mentre stanno per nascere “la nuova Commissione, il nuovo Parlamento e la nuova Bce” (Salvini dixit), non può non avere qualcuno che la rappresenti politicamente al meglio nelle sedi dove si prenderanno le decisioni sulla procedura d’infrazione che grava sull’Italia. E dove presto si deciderà anche su chi avrà cosa nella nuova Europa.

L’isolamento in questione nasce evidentemente dall’eccentricità dei due partiti attualmente al governo in Italia. Il M5S è un unicum su scala continentale, al punto da essersi associato in vista del voto europeo con formazione altrettanto lunatiche, tenute insieme dal fatto di volersi considerare genericamente “né di destra né di sinistra”: dal partito croato anti-sfratti ai polacchi di Kukiz 15 guidati dall’ex cantante rock Pawel Kukiz, senza dimenticare il partito greco dell’agricoltura e dell’allevamento. A urne chiuse si è capito che un simile raggruppamento conterà meno di niente.

Quanto alla Lega è un partito di destra nazional-populista come ce ne sono ormai tanti nei diversi Paesi europei, pur con sfumature e particolarità nazionali da non trascurare. La scommessa di Salvini, che puntava grazie anche alla sua eclatante vittoria in Italia alla creazione di una vasta aggregazione d’ispirazione sovranista, s’è rivelata perdente allorquando alcuni dei potenziali compagni di strada hanno fatto altre scelte. Gli ungheresi di Fidesz (Orbán) si sono tenuta ben stretta la loro affiliazione al Partito popolare. I polacchi di Diritto e Giustizia (Kaczynski) hanno preferito associarsi con il gruppo conservatore.

Alla Lega è rimasta l’amicizia della Marine Le Pen: troppo poco – politicamente, ma soprattutto sul piano dei numeri – per poter contare, dal momento che a dare le carte saranno, anche nel nuovo Parlamento, i popolari e i socialisti, con l’appoggio dei liberal-democratici e (forse) dei Verdi. Il paradosso è evidente (e divertente). Nel gioco di contatti e incontri, formali e informali, che già sono iniziati in vista della definizione di incarichi e competenze, (proprio ieri sera c’è stata una cena tra i leader di partito delle famiglie politiche che comporranno la nuova maggioranza a Bruxelles), rischia di contare più il vecchio Silvio Berlusconi (pur sempre un membro anziano e a suo modo ancora rispettato del club popolare, per quanto politicamente acciaccato nel proprio Paese) rispetto all’arrembante Salvini (sempre più forte in Italia ma a corto di interlocutori autorevoli appena oltre confine, vista anche la tendenza dei sovranisti europei a curarsi ognuno degli affari del proprio Paese).

Un paradosso che inclina alla beffa se si pensa che rispetto al Capitano potrebbe avere più voce in capitolo, in Europa, persino Giorgia Meloni, abilmente accasatasi anch’essa con i Conservatori. Che qualche dialogo col centro popolare possono sperare d’averlo, diversamente dai populisti “duri e puri” con cui nessuno sembra intenzionato a dialogare.

Il problema è infatti questo: con chi parlare (e come farlo) quando ci si muove sulla scena internazionale e si è costretti per definizione a mediare, chiedere, discutere, concedere, negare, per infine accordarsi al meglio con tutti quelli che stanno intorno al tavolo delle trattative? A suo tempo, Silvio Berlusconi, un alieno rispetto alla politica tradizionale italiana ed europea, che nessuna sapeva bene come collocare, si sottopose ad una paziente trafila politico-diplomatica in vista della sua accettazione all’interno del Partito popolare europeo. Un’analoga trafila non si può ovviamente chiedere oggi a Salvini, che ha idee molto diverse da quelle del Cavaliere. Ma se l’Italia (non la Lega, ma l’Italia) vorrà portare a casa qualcosa di sostanzioso e importante forse bisognerà cercarsi delle sponde, trovarsi “amici” e alleati anche fuori dal perimetro sovranista. E ancora di più il discorso vale per i grillini.

L’esito del voto europeo è però solo la ragione contingente dell’isolamento italiano in questo momento politico. Ci sono poi motivazioni più profonde e strutturali.  Ad esempio il carattere ondeggiante e spesso equivoco assunto dalla nostra politica estera, almeno per come l’hanno declinata in quest’anno di governo Salvini e Di Maio tra interviste, esternazioni, incontri e viaggi più o meno ufficiali. Civettare con la Cina mentre gli Stati Uniti sono impegnati con essa in una guerra commerciale, simpatizzare per Putin mentre tutti lo accusano di destabilizzare le democrazie a colpi di false notizie, solidarizzare con Maduro mentre il resto del mondo fa il tifo per i suoi oppositori, dichiarare la Francia il nostro nemico principale, attaccare frontalmente l’Unione europea e i suoi rappresentanti come se fosse loro la colpa dei nostri guai di bilancio e della nostra mancata crescita economica: tutto ciò è certo politicamente lecito, ma alla fine un prezzo si paga – appunto in termini di isolamento, di poca affidabilità e di debolezza negoziale.

Siamo riusciti persino nel capolavoro di avere scarso feeling con gli Stati Uniti proprio mentre questi ultimi sono comandati dal capo mondiale dei populisti. Anche Trump – che prima che un populista è un americano e un uomo d’affari, dunque uno estremamente pragmatico – alla fine pare essersi stancato di un’Italia che su ogni grande partita internazionale sembra schierarsi sempre dalla parte dei nemici dei nostri storici amici.

L’altro giorno alle commemorazioni dello sbarco in Normandia c’erano capi di Stato e di governo di molti Paesi occidentali. A rappresentare l’Italia l’esecutivo giallo-verde ha invece mandato un diplomatico. Un caso o forse una necessità, ma l’impressione che si ricava da quest’episodio, per quanto minore, è quella di una nazione che ha perso gran parte della sua tradizionale rete di alleanze e che, quel che è peggio, sembra persino compiacersene.

 

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