di Danilo Breschi

Nicola Matteucci (1926-2006) è stato uno dei più profondi conoscitori del liberalismo europeo e nordamericano. Secondo Angelo Panebianco è stato “uno dei pochi veri grandi maestri che il liberalismo italiano abbia avuto nella seconda metà del XX secolo”. La sua riflessione ha sempre avuto a cuore il tema del pluralismo, vero cardine e contributo civico di una teoria liberale socialmente impegnata. Viene in mente un testo che Matteucci scrisse nel 1996. Dimostrava di aver ben chiaro dove si annidasse il rischio di una declinazione errata del pluralismo, di una degenerazione e perversione della sua natura e significato: in quel multiculturalismo, di cui tanto si parlava da alcuni anni oltreoceano e che sempre più ha invaso il dibattito filosofico-politico europeo dell’ultimo ventennio.

Pluralismo e multiculturalismo non sono affatto sinonimi, questo Matteucci teneva a precisare. Se pluralismo è l’accettazione del nuovo e del diverso all’interno di un confronto pacifico o di leale (e legale) concorrenza, ciò non significa che ogni novità e ogni diversità possano essere incamerate e gestite all’interno della logica della convivenza politica liberal-democratica. Non a caso si parla di “convivenza” e non di mera compresenza, non di una inevitabile condivisione di spazi, magari in una prossimità così stretta da eccitare quell’istinto naturale all’aggressività che agita l’animale uomo, secondo le note osservazioni dell’etologo Konrad Lorenz. È proprio questa prossimità incontrollata e invasiva che, sperimentata sulla propria pelle, genera una diversa valutazione del multiculturalismo particolarmente apprezzato invece da chi solitamente ne ha un’idea puramente teorica, o dispone di quelle risorse materiali che consentono di mantenere le distanze di sicurezza dai crescenti insediamenti a forte connotazione etnica.

La frequentazione turistica o comunque passeggera e occasionale della comunità radicalmente altra è cosa ben diversa da un contatto obbligato e ininterrotto nel tempo, dove la quotidianità rende difficoltosa la convergenza attiva di interessi e abitudini difformi persino tra singoli individui perfettamente omologhi per lingua, usi e costumi (ad esempio, una coppia di coniugi o conviventi della stessa nazionalità), figurarsi quindi fra gruppi che coltivano regole di organizzazione interna tra loro molto distanti. Il multiculturalismo tende spesso a distorcere il significato dell’individualismo, a ridurlo a quel gretto egoismo che dissolve ogni solidarietà interpersonale e che è effettivamente la malattia che corrode l’individuo nelle nostre società d’Occidente. Si dimentica però quanto l’individualismo “buono”, cioè la valorizzazione dell’individuo, e la libertà siano, loro sì, sinonimi.

Bisogna inoltre intendersi sul significato del termine-concetto di cultura, che può indicare il patrimonio di idee, pregiudizi, usi e costumi di un singolo individuo oppure di una comunità coesa e più o meno chiusa verso l’esterno. C’è cultura e cultura: vi sono usanze e pratiche sociali compatibili con il riconoscimento dell’altro, perché hanno interiorizzato il valore della tolleranza o qualcosa di analogo; vi sono tradizioni che prescrivono comportamenti incompatibili se non urtanti le altrui sensibilità, le altrui pratiche, fino al punto di negarne ogni possibilità di manifestazione. Non tutte le culture sono tolleranti, e Matteucci dedica l’intero suo scritto a spiegare come il pluralismo europeo-occidentale sia stato l’esito di un lungo e travagliato percorso snodatosi attraverso guerre civili di religione che hanno dilaniato e insanguinato il Vecchio Continente per secoli. Un percorso infine giunto all’idea-valore del riconoscimento reciproco e incrociato dell’altro-diverso-da-me. Un esito dovuto quasi più all’estenuazione che non all’affermazione della validità filosofica di un principio; all’impossibilità di annientare l’altro piuttosto che alla constatazione del suo essere in qualche misura portatore di un valore aggiunto.

I primi cristiani riformati non si distinguevano per una particolare tolleranza nei confronti di chi ritenevano in errore. In quel caso non si metteva tanto in discussione l’assolutezza della verità, ma si contrapponeva nuova verità, ossia verità vera, a vecchia verità, ossia verità falsa. E il nuovo era piuttosto una re-formatio, una restituito in pristinum, una rimessa in forma, quella pura, quella giusta. E allora ecco il secondo merito dell’analisi di Matteucci: egli aveva ben chiaro dove stesse la nuova minacciosa sfida all’idea di tolleranza e a quella sua evoluzione teorica e pratica che è il pluralismo. Lo studioso bolognese non si limitava a segnalare i rischi del cosiddetto “revival etnico”, i nuovi nazionalismi tribali rigurgitati dalle terre ferite dei Balcani, ma sottolineava piuttosto quanto l’integralismo islamico rappresentasse “un grave fattore perturbante per un vero pluralismo”.

Le domande fondamentali sul destino del pluralismo occidentale erano dunque già tutte formulabili vent’anni fa, ben prima dell’11 settembre 2001. Fino a che punto possono spingersi le diversità di giudizi e comportamenti all’interno di una società aperta? Quali sono i limiti di inclusione oltre i quali la divaricazione diventa squartamento? Il pluralismo “ragionevole” di John Rawls costituiva, ad avviso di Matteucci, l’antitesi del “pluralismo in quanto tale, il quale ammette dottrine non solo irrazionali, ma folli e aggressive”.

Si tratta insomma dei classici interrogativi su quanta diversità può tollerare una società, la quale piomba facilmente nell’anarchia e nella conflittualità endemica quando smette di conoscere e di apprezzare legami interpersonali che vadano al di là dell’appartenenza etnica e/o dell’identità religiosa. Se religione ed etnia sono una delle tante componenti della costruzione di ciascuna identità individuale, esse non possono che apportare ricchezza alle società ospitanti. Se si tratta di matrici esclusive e totalizzanti di identità, la politica si paralizza e la società civile deperisce fino all’inciviltà.

Pertanto l’integrazione è risorsa per chi arriva, necessità per chi riceve. Da entrambe le parti occorre fare opera educativa. Altrimenti l’immigrato resta “estraneo”, di qui la xenofobia di chi non accoglie, di qui lo spirito di rivalsa e l’odio sociale di chi non vuole essere integrato ma solo “rinchiudersi in ghetti per ricostituire la piccola patria”. Perché è questo cui mira la predicazione dell’islamismo radicale e jihadista; ed è quello che viene agevolato da politiche ispirate ad un multiculturalismo maldestramente maneggiato da politici, amministratori locali e apprendisti sociologi, ma che in sostanza è solo un “monoculturalismo plurale”, secondo la felice espressione formulata da Amartya Sen.

Matteucci dice dunque qualcosa di più e di diverso rispetto alle classiche argomentazioni sul tema: non dipende solo da noi ospitanti il futuro di una società aperta pluri-etnica; dipende anche dalla buona volontà di chi è inizialmente ospitato. E da quanta acqua togliamo ai pescecani dell’odio etnico o religioso, come ad esempio imam estremisti e agenti del terrorismo jihadista.

Il multiculturalismo che si presenta come elogio della comunità di comunità (al plurale) rischia di trasformare il mosaico inter-etnico in un puzzle dalle tessere così numerose da rendere impossibile ogni composizione. Senza un comune denominatore, senza valori ultimi condivisi (tendenzialmente) da tutti, non c’è una società, quell’unum figlio dell’incontro dei molti e diversi. “Ex pluribus unum” è la formula propria del federalismo americano, ma oggi per federazione si intende piuttosto una giustapposizione di elementi esistenziali e culturali eterogenei che non produce sintesi, perché questa è vista come violenza del più forte sul più debole, oppure perché questa presupporrebbe una capacità autocritica da parte della stessa cultura ospitante.

Autocritica non significa affatto rinnegamento o misconoscimento di sentimenti di appartenenza comunque da difendere quale importante fonte di significato e di identità individuale e collettiva. Anche perché qui si tratta dell’appartenenza ad un insieme di storie, tradizioni, usi e costumi che possono ragionevolmente fregiarsi del titolo di “civiltà”. E la soluzione è tutt’altro che facile, non sta dietro l’angolo, perché cristianesimo e islam sono, sì, religioni entrambe monoteiste, ma “troppi secoli di storia le separano”, ci ricordava Matteucci. Non hanno percorso le stesse tappe di dubbi e ripensamenti, lo stesso travaglio come dottrina e come istituzioni.

Giovanni Sartori ha fra l’altro osservato come l’immigrante di cultura teocratica ponga problemi ben diversi, solitamente più seri e più gravi, rispetto all’immigrante che accetta la separazione tra politica e religione. C’è poi da comprendere potenzialità e limiti delle religioni, di qualsiasi religione, in termini di educazione al ragionamento e predisposizione a porsi in ascolto dell’altro e delle sue ragioni. Un’attitudine che un laico come Amartya Sen giudica scarsamente presente, se non completamente assente, nella religione quando intesa come fede non meditata.

Sono più importanti le tradizioni culturali o la libertà culturale? Questo l’interrogativo che Sen si è più volte posto nel solco di una tradizione liberale rinnovata ma non stravolta. “Nascere in un particolare background sociale non è di per sé un esercizio di libertà culturale […], non essendo frutto di una scelta”, osserva ancora Sen, “al contrario, sarebbe un esercizio di libertà la decisione di restare saldamente all’interno del sistema tradizionale, se la scelta venisse compiuta dopo aver preso in considerazione altre alternative”. In conclusione, il ragionamento di Sen è il seguente: “se si vuole il multiculturalismo in nome della libertà culturale risulta difficile pensare che la condizione irrinunciabile possa essere un sostegno inamovibile e incondizionato al rigido mantenimento della tradizione culturale ereditata”.

La coesistenza non è di per sé un fatto positivo: può significare semplice compresenza di elementi eterogenei, oppure contaminazione reciproca nel pieno rispetto di regole del gioco, che nel caso europeo e occidentale dovrebbe significare mantenimento delle istituzioni politiche e giuridiche proprie dello Stato sociale di diritto. Per inciso, non possiamo nasconderci che la qualifica di “sociale” è sempre più messa in discussione dalla reiterata immissione di cospicue quote di popolazione emigrante in Italia. Per mantenere un alto standard di Welfare si potrebbe pensare necessario, ai fini di un aumento del numero di contribuenti, un rapido inserimento degli immigrati con il conseguente riconoscimento della piena cittadinanza civile e politica, ma una tale rapidità renderebbe quasi inevitabile il consolidamento di comunità chiuse definite sulla sola base dell’appartenenza etnica.

La ricerca di una “piccola patria” che ripristini, sia pure in forma surrogata, usi e costumi – se non luoghi – dei paesi di origine, da cui si è emigrati prevalentemente per necessità, genera quasi automaticamente quelle “società chiuse” che sono le etnie. Se non si opera dentro queste ultime prima che si solidifichino nelle periferie o in quartieri-ghetto delle nostre città, il rischio è la frantumazione del legame sociale e la nascita di molteplici enclaves nel tessuto urbano e provinciale. La cittadinanza che poi concederemo sarà a quel punto facilmente alterata dalla parentela, ossia da criteri di regolamentazione interna al gruppo ormai già consolidatisi ed essenzialmente antitetici al garantismo, cioè alla tutela dei diritti individuali.

Insomma, resta tuttora valida la lezione dei classici, così riassunta da Matteucci con un paio di interrogativi terribilmente attuali: “Quanta diversità può sopportare una società al suo interno? L’ideale è ex pluribus unum; ma cosa succede se quei “pluribus” diventano divaricanti?”. La ricerca della buona società sarà sempre ricerca di un equilibrio vitale e virtuoso tra unità e pluralità. Una lezione da tenere bene in mente per i tempi che viviamo e vivremo.