di Alessandro Campi
Quanto può reggere un esperimento politico eccentrico quale il governo giallo-verde guidato sulla carta dal premier Conte e nato, più che da convergenze ideologiche nel segno d’un generico spirito populista, dal patto generazionale e di potere sottoscritto tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini? La risposta scontata e formale è: sino a che lo vorranno gli elettori, unici sovrani in democrazia. Quella più maliziosa e vagamente complottista recita invece: sino a che i mercati non decideranno di affossarlo proprio in virtù di un’anomalia che si teme possa,
di Alessandro Campi

Quanto può reggere un esperimento politico eccentrico quale il governo giallo-verde guidato sulla carta dal premier Conte e nato, più che da convergenze ideologiche nel segno d’un generico spirito populista, dal patto generazionale e di potere sottoscritto tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini? La risposta scontata e formale è: sino a che lo vorranno gli elettori, unici sovrani in democrazia. Quella più maliziosa e vagamente complottista recita invece: sino a che i mercati non decideranno di affossarlo proprio in virtù di un’anomalia che si teme possa, per eccesso d’avventurismo, diventare contagiosa per tutta l’economia europea.

Più prosaicamente esso durerà sino a quando non diverranno insostenibili, anche agli occhi dei suoi sostenitori, le diversità – di programmi e obiettivi – che lo caratterizzano sin dalla nascita e che cominciano a pesare sempre di più sulla sua azione a dispetto dell’ottimismo di facciata ostentato sin qui dai diretti interessati.

La comune volontà di un radicale cambiamento, sostenuta da un vasto malessere popolare contro i vecchi partiti, è stata un buon punto di partenza dopo il clamoroso risultato elettorale del 4 marzo, ma strada facendo si è anche rivelata una meta generica e meramente propagandistica. Va bene essere accomunati dal medesimo desiderio di rompere col passato, ma bisognerebbe anche avere un’idea condivisa di come costruire il futuro che invece a Lega e M5S sembra mancare.

Così come non può bastare per governare a lungo insieme la mistica del giovanilismo contrapposta alla staticità delle vecchie nomenclature. Oggi Salvini e Di Maio macinano consensi col loro presentarsi come capi pieni di energie, volitivi e risoluti, pronti (all’apparenza) a tutto, capaci di opporsi anche ad un’Europa descritta come una realtà governata da vecchi tromboni che non vogliono saperne di mollare la presa. Ma la politica tutta like, tweet, clic, selfie, post, bagni di folla, apparizioni televisive, complotti, velocità, battute, promesse e slogan è già costata a Matteo Renzi, che ne è stato il primo campione, una sonora sconfitta. A insistere su questo registro – il nuovo contro il vecchio come principale titolo di legittimità – si rischia di seguirne la parabola: rapidissima ascesa, velocissima discesa.

Presi nella morsa dei vincoli di bilancio pubblico e delle aspettative crescenti dei cittadini tutti i governi europei faticano a realizzare il programma per cui sono stati votati. Figuriamoci, come nel caso italiano, realizzarne due contemporaneamente e diversi tra di loro sul tema cruciale dell’economia: quello leghista che scommette sulla riduzione delle tasse per rilanciare consumi e produzione, quello grillino che punta sull’aumento della spesa pubblica a fini di equità sociale. Ma acquistare consenso giocando allo sfascio coi conti dello Stato è il modo più sicuro per perderlo. Senza contare le molte differenze e i diversi approcci in materia di diritti civili, di sicurezza, di opere pubbliche, di immigrazione, di cultura amministrativa. Basta, per far dimenticare queste diversità e fonti d’attrito, inveire contro i poteri forti e presentarsi come due forze chiamate a rappresentare la vera volontà del popolo contro coloro che la tradiscono? E basta aver fatto dell’Europa il comodo bersaglio dei cattivi umori popolari e delle proprie inadempienze? La colpa, gli italiani presto lo capiranno, non può essere sempre e soltanto di Bruxelles.

Si può obiettare che nel Novecento si sono viste combinazioni politico-ideologiche d’ogni tipo, compresa la convergenza degli opposti radicalismi. Ma si è trattato di avventure di minoranze e, peggio ancora, di esperimenti falliti tragicamente. Le unioni dei contrari, a dispetto delle fascinazioni che producono sugli intellettuali, non hanno mai creato sintesi politiche virtuose o realmente innovative. Il giallo-verde populista sarà più fortunato del rosso-bruno totalitario? Questi primi mesi di governo, scanditi da molti annunci e pochissime realizzazioni, non lasciano granché sperare: forse la democrazia non è minacciata, come sostengono alcuni allarmisti, ma cominciano ad esserlo i nostri risparmi. Quanto al cambiamento sbandierato, siamo ancora in pieno ristagno economico e in uno stato d’animo sempre più scoraggiato rispetto al futuro.

Il problema è che gli innesti troppo arditi falliscono in natura come in politica. Che è ciò che potrebbe certificare, proprio con riferimento all’Italia, il voto europeo del prossimo anno. C’è chi pronostica un vittorioso assalto al palazzo del potere di Bruxelles della destra populista. Ma è una previsione esagerata. I nazional-populisti europei cresceranno in voti e seggi, questo è certo visti i sondaggi, ma non saranno maggioranza assoluta.

Ciò significa che nel nuovo Parlamento europeo non ci sarà la débacle delle vecchie famiglie politiche, ma andrà comunque definita una nuova geografia dei poteri, creato un nuovo equilibrio tra le forze in esso presenti per decidere chi dovrà assumere la guida dell’Europa, visto che difficilmente potrà essere riproposta la storica collaborazione tra socialisti e popolari: ancora forti, ma sempre più deboli.

C’è chi spera nella costituzione di una Santa Alleanza repubblicana e anti-populista che vada da Macron a Tsipras, passando ovviamente per la Merkel dopo il voto. Guardando però all’orientamento delle opinioni pubbliche dei diversi Paesi appare più probabile la formazione di una maggioranza basata sull’alleanza tra il blocco popolare-moderato (che ovunque in Europa, a partire proprio dalla Germania, sta rifluendo su posizioni vieppiù conservatrici e securitarie) e quello nazional-populista di cui la Lega salviniana è parte sempre più importante.

Ma la costituzione di una sorta di centrodestra europeo che includa, pur con le loro differenze, liberal-conservatori, popolari e nazional-populisti, dal tedesco Manfred Weber all’ungherese Viktor Orbán, passando appunto per Matteo Salvini, inevitabilmente rischia di rendere sempre più insostenibile un esperimento bizzarro come quello italiano, sempre che l’attuale governo arrivi compatto alla scadenza del voto.

Laddove la vera anomalia di tale governo è in realtà rappresentata – è un fatto, non un giudizio di valore – dal M5S: un coacervo politico-ideologico senza eguali in Europa e proprio per questo a rischio d’isolamento su scala continentale.  A meno che anche all’interno del M5S – che attualmente è tutto e il suo contrario: destra, sinistra e centro, movimentismo e ministerialismo, potere dal basso e comando opaco dall’alto, futuro digitale e assistenzialismo vecchio stampo, terzomondismo e sovranismo – non si avvii, proprio nella prospettiva delle future elezioni europee, un processo di chiarificazione riguardo il suo effettivo profilo. Che potrebbe sempre più diventare, guardando anche alla sua base elettorale e alle istanze che esprime, quello di una forza populista di sinistra sul modello di Podemos in Spagna, come tale portata più facilmente a dialogare con le altre forze progressiste europee, dai Verdi ai socialisti (e in Italia ovviamente col Pd).

Chissà che il voto europeo, oggi tanto temuto, non riesca a mettere un po’ d’ordine nel caos politico italiano e nella confusione delle lingue che rischia di soffocarci?

*Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 10 ottobre 2018

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