di Davide Ragnolini
Da più parti, le attuali presidenziali negli Stati Uniti sono state definite come “le più importanti di sempre”. L’enfasi retorica è forse eccessiva, perché – come è noto – sul piano della politica estera vi è sempre stata una convergenza tra repubblicani e democratici nella difesa dell’unipolarismo statunitense. E che questa enfasi sia forse eccessiva è apparsa evidente anche all’illustre politologo e accademico Joseph S. Nye, il quale vede già da tempo una trasformazione dell’equilibrio di potere globale,
di Davide Ragnolini

Da più parti, le attuali presidenziali negli Stati Uniti sono state definite come “le più importanti di sempre”. L’enfasi retorica è forse eccessiva, perché – come è noto – sul piano della politica estera vi è sempre stata una convergenza tra repubblicani e democratici nella difesa dell’unipolarismo statunitense. E che questa enfasi sia forse eccessiva è apparsa evidente anche all’illustre politologo e accademico Joseph S. Nye, il quale vede già da tempo una trasformazione dell’equilibrio di potere globale, che non dipende soltanto dai capricci nello Studio Ovale, ma da fattori strutturali nel sistema internazionale. Non ci sarà una netta soluzione di continuità tra la ‘Trump era’ e il ‘post-Trump’, quanto invece una graduale ridefinizione dell’ordine liberale globale. Ma occorre fare un passo indietro.

Michael Mandelbaum nel suo Mission Failure. America and the World in the Post-Cold Era (OUP, 2016) aveva dichiarato che l’ordine mondiale post-Guerra Fredda era già finito pochi anni fa. Durante la Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno puntato al contenimento degli avversari e all’equilibrio tra Stati; nel dopoguerra fredda all’interventismo e alla trasformazione degli Stati (1991-2014); e infine una battuta d’arresto: Russia e Cina avrebbero bloccato la “rivoluzione” nella politica internazionale. Per Mandelbaum l’ordine del dopoguerra fredda finisce laddove è iniziato il confronto degli Stati Uniti con Russia e Cina su diversi teatri regionali (Medio Oriente, Ucraina e Mar Cinese Meridionale).

I miti fondanti l’ordine liberale del dopoguerra fredda si sono incrinati: la crescente importanza dell’economia globale ha scontato una grande crisi nel 2008; l’aumento delle spese per gli eserciti convenzionali non ha accennato a diminuire; infine, Russia e Cina hanno mostrato una rinnovata capacità di agire come grandi potenze tradizionali, e non più come mansueti turisti diplomatici in rituali summit internazionali.

Insomma, già il 2014 con la crisi russo-ucraina, e con anticipo di due anni sull’elezione di Trump, la “rivoluzione liberale” era finita. Secondo Mendelbaum Russia e Cina hanno dato inizio alla “restaurazione” dell’ordine internazionale secondo la logica di potere tradizionale. Ecco l’inizio di una contro-rivoluzione anti-liberale nell’ordine globale. La stampa occidentale ha visto il primum movens di questa trasformazione nell’elezione di Trump nel 2016 e nell’ascesa dei populismi; gli studiosi di relazioni internazionali nello smottamento tettonico sotto i nostri piedi. Si è giustamente parlato, con John J. Mearsheimer, di un’età aurea dell’ordine liberale (1990-2004), e della sua successiva parabola discendente (2005-2019).

Ma l’opinione diffusa – sia presso trumpisti che anti-trumpisti – è che l’elezione di Trump sia stata l’evento tellurico principale, mentre non è che un segnale sul sismografo dell’ordine mondiale. E non c’è ancora accordo nemmeno tra gli specialisti delle relazioni internazionali, con liberali e realisti divisi rispetto ad una lettura della storia globale più recente. Tra apocalittici (liberali) e integrati (realisti), forse c’è spazio per una terza posizione, che sembra suggerita da Joseph J. Nye.

Con la vittoria democratica di Joe Biden, ipotizzava Nye in un articolo dello scorso luglio, potremmo assistere non già al ritorno all’ordine internazionale liberale – ormai impensabile – ma a un suo rimpiazzamento. Il “Make America Great Again” è stato il canto del cigno dell’unipolarismo statunitense, non il motto di inizio di un ordine multipolare. La vittoria democratica anti-trumpista può segnare una sconfitta della recente politica estera repubblicana, non già il ritorno ad un ordine liberale internazionale.

Detto altrimenti, anche i più nostalgici sostenitori del Washington Consensus ne usciranno giocoforza più ‘realisti’. E non già per qualche virtù interna al dibattito politico statunitense – incredibilmente basso per la “più grande democrazia del mondo” – ma per la realtà esterna alla cosiddetta “isola-Mondo” americana. Per Nye occorre infatti tenere distinti due terreni su cui gli Stati Uniti saranno chiamati a confrontarsi: uno di frizione con potenze già emerse all’interno dell’ordine post-bipolare, ed uno di possibile confronto, con alleati tradizionali o meno. Da un lato Russia e Cina rafforzeranno le istanze più particolaristiche all’interno dell’ordine internazionale, con una maggiore enfasi sul principio di sovranità in seno al Consiglio di Sicurezza ONU; dall’altro, si apre la possibilità di una cooperazione su alcuni temi transnazionali e di interesse comune, come la questione ambientale, la recente crisi sanitaria, la regolamentazione del cyberspazio, e infine l’instabilità economica.

Nye non crede al ritorno ad un sistema unipolare, quanto alla nascita di un sistema ‘duale’: dopo la sbornia parrocchiale del “Make America Great Again”, gli Stati Uniti dovrebbero ricostruire un sistema di alleanze basato su almeno un “nucleo interno” di stretti alleati per poter promuovere un’agenda liberale (ma non troppo) su questi temi transnazionali. In questo senso, l’elezione di Biden potrebbe segnare soltanto un rimpiazzamento dell’ordine liberale, non una sua piena restaurazione.

E le ragioni di questo ordine liberale soltanto parziale sono da ricercare al di fuori, lo si è già detto, della Casa Bianca. In politica internazionale, come insegnava Kenneth Waltz, le ragioni sistemiche sono sempre sovraordinate alle questioni di politica interna. E Cina e Russia, da parte loro, sembrano pronte per questo cambio di staffetta ai vertici della presidenza statunitense. La discontinuità nella leadership di un Paese, del resto, va spesso a vantaggio dei suoi rivali di vecchia data.

In un recente editoriale del “Global Times” cinese Biden e Trump, in fondo, figuravano come sostanzialmente omologhi nella loro campagna anti-cinese, in una sorta di rincorsa a “chi è più duro con la Cina”. Niente di nuovo sotto il sol (Levante), insomma. Anche il rapporto tra Mosca e Washington seguirà probabilmente il copione di sempre.

Ma mentre ancora nel 2020 si ricerca la ‘pistola fumante’ dell’interferenza russa nella campagna di Trump del 2016, è curiosa l’intervista sulle elezioni in corso che lo scorso ottobre Putin rilasciava per “Rossiya TV channel” (ripresa poi dalla rivista newyorkese “Newsweek”).

Al netto della retorica anti-russa peculiare ai democratici statunitensi, a cui il presidente russo si diceva ormai abituato, non passavano inosservati alcuni aspetti positivi di confronto: una certa vicinanza su temi social-democratici (sic); il sostegno agli afro-americani che, come ricordava Putin, un tempo erano legati agli ideali del partito comunista russo nella lotta a “imperialismo e capitalismo” (sic); e ancora, meno sorprendente, la ripresa del programma “New START” sulla riduzione delle armi nucleari promosso da Obama nel 2010.

Un quadro diverso, insomma, rispetto a quello dipinto da trumpisti e anti-trumpisti. Quel che appare più certo, comunque, è che il cosiddetto “ordine liberale internazionale” non potrà essere pienamente restaurato ma al più, come ha suggerito Nye, rimpiazzato. Indipendentemente dalle illusioni unipolariste democratiche o repubblicane, vecchie e nuove.

 

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