di Alessandro Campi

Le vie della nostalgia sono, se non infinite, certamente varie. Il rimpianto dei grillini e dei leghisti, intriso di conservatorismo piccolo-borghese, sembra andare a quel tempo antico durante il quale si santificavano le feste, si trascorrevano le domeniche in famiglia, si mangiava italiano, lo Stato controllava l’economia, i giovani partivano per la naja obbligatoria, ci si sposava tra compaesani e si facevano molti figli. Il governo del cambiamento che depreca la modernità.
di Alessandro Campi

Le vie della nostalgia sono, se non infinite, certamente varie. Il rimpianto dei grillini e dei leghisti, intriso di conservatorismo piccolo-borghese, sembra andare a quel tempo antico durante il quale si santificavano le feste, si trascorrevano le domeniche in famiglia, si mangiava italiano, lo Stato controllava l’economia, i giovani partivano per la naja obbligatoria, ci si sposava tra compaesani e si facevano molti figli. Il governo del cambiamento che depreca la modernità. Che incredibile ironia, come hanno fatto notare alcuni osservatori.

Ma l’ironia dovrebbe riguardare anche quei progressisti, per definizione orientati al domani e al futuro, che sembrano avere anch’essi lo sguardo rivolto sempre più al passato. Privati delle antiche certezze ideologiche, divisi e frammentati al loro interno, delusi dalle continue sconfitte elettorali, alle prese con un mondo che non riescono a capire e interpretare secondo le categorie storiche abituali, la loro nostalgia in questo caso sembra concentrarsi sul periodo tra le due guerre mondiali. Quegli anni politicamente cupi, ma eroici ed esaltanti, durante i quali le sinistre d’ogni tendenza si battevano unite contro il fascismo in tutte le sue incarnazioni. Un fascismo alla fine sconfitto, armi in pugno, ma purtroppo sempre risorgente, in quanto evidentemente espressione del lato oscuro dell’essere umano: non un’ideologia, ma una malattia dello spirito. Ecco allora perché gli avversari di oggi, i deprecati populisti che ovunque in Europa vanno accrescendo i loro consensi, null’altro debbono essere considerati se non la reincarnazione dei nemici di ieri: sempre la stessa pericolosa cricca di razzisti e nemici della democrazia guidati da pericolosi demagoghi ai quali le masse concedono fiducia mosse da impulsi irrazionali e distruttivi.

Insomma, nomini Salvini e pensi meccanicamente a Mussolini, parli di immigrazione clandestina e trovi chi immediatamente evoca l’orrore delle leggi razziali, discuti di sicurezza e frontiere e subito ti danno del nazionalista violento e aggressivo, come se l’Italia e gli italiani fossero per davvero tornati agli anni Trenta, al culto del capo assoluto e alla persecuzione delle minoranze. Quella della sinistra odierna, italiana ed europea, non è però solo un’evocazione nostalgica frutto al tempo stesso di una sorta di pigrizia o coazione a ripetere intellettuale. Ѐ anche un’interpretazione grossolana e falsificante della storia, un trucco propagandistico facile da smontare e, per finire, una tattica politica pessima e controproducente.

L’errore storico-interpretativo è presto detto.  Nell’uso che ormai se ne fa nella battaglia politico-giornalistica il fascismo ha smesso di essere un fenomeno storico per diventare una categoria astratta, un’incarnazione generica del male, una parola tanto foriera di significati sinistri quanto nella sostanza vuota e generica: tutto e niente. Ne discende una pessima pedagogia, specie per le nuove generazioni sempre meno avvezze allo studio (e alla comprensione) della storia. Con l’idea di forgiarne la coscienza morale, nel senso del buon cittadino democratico che vigila contro il male sempre in agguato, se ne alimenta soltanto l’ignoranza dei fatti, consegnando loro un passato ricostruito senza sfumature e distinguo, piegato agli interessi politici del momento, ridotto ad uno scontro meccanico tra buoni e cattivi. Senza contare l’effetto perverso di un simile manicheismo: nei giovani infatti c’è spesso la tendenza ad infatuarsi dei dannati della storia, delle cause perse e delle figure maledette. Ragion per cui a furia di elevare il fascismo a male assoluto si rischia di renderlo attrattivo.

C’è poi l’aspetto strumentale di questo continuo evocare lo spettro di un fascismo risorgente. Che è duplice. Da un lato si punta a delegittimare l’avversario politico attribuendogli un’etichetta pubblicamente infamante: un’espediente antico ma che funziona ancora oggi specie quando sostenuto da una vasta mobilitazione mediatica. Anche se in realtà dovrebbe venire facile obiettare, ad esempio, che la rivendicazione di un diritto non consegna automaticamente al campo del fascismo e dell’intolleranza colui che lo nega o lo contesta, come oggi si tende a fare. Dall’altro, l’impegno morale nella lotta contro il fascismo esenta dal dover scendere nei particolari, dal dover prendere una posizione chiara sui temi politici realmente al centro della discussione. Che importa discutere di ciò che concretamente la sinistra farebbe in materia di integrazione, di accoglienza e di politiche migratorie quando il problema è fermare il razzismo dilagante e salvare la civiltà europea dalla barbarie? Insomma, la minaccia del fascismo sembra tanto una scorciatoia ideologica grazie alla quale i partiti della sinistra nascondono, non solo in Italia, la loro mancanza di idee e di strategia rispetto a problemi tanto grandi e drammatici da non sapere come concretamente gestirli.

C’è infine l’errore politico, forse l’aspetto più grave e controproducente di questa tendenza ad appiattire sul passato più cupo della storia europea la politica odierna e i suoi attori. Considerare quello giallo-verde un governo potenzialmente autoritario, dare continuamente a Salvini del fascista e del razzista, lanciare ad ogni passo l’allarme sulla marea populista che starebbe travolgendo l’Europa democratica, rischia paradossalmente di rafforzare gli avversari che si vorrebbero combattere. Da un lato, metterli sotto accusa per ogni loro mossa o parola è un modo per mettere al bando i cittadini che li votano e per liquidare come politicamente indegne le motivazioni o ragioni alla base delle loro scelte. Dall’altro, si concede ai populisti l’alibi del vittimismo; e se ne rafforzano il risentimento, lo spirito di denuncia e l’inclinazione sospettosa. Il caso italiano è da questo punto di vista esemplare. Accusare quotidianamente leghisti e grillini di essere razzisti e incompetenti non solo non ha intaccato il consenso di cui godono, ma li ha messi in condizione di opporre propaganda a propaganda, accuse ad accuse, demagogia a demagogia, invece di venire giudicati e criticati per ciò che concretamente fanno e propongono, o per ciò che hanno promesso di fare e di cui ancora non s’è vista traccia. La conclusione, assai prosaica, è che smettere di parlare di fascismo sarebbe, per chi si oppone a questo governo, il modo migliore per tornare a fare politica e per incalzarlo sul serio.

* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 17 settembre 2018.

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