di Alessandro Campi
Un partito denominato ‘Forza Europa’ l’abbiamo già avuto alle elezioni dello scorso 4 marzo. Ha ottenuto il 2,6% dei voti: sotto dunque la soglia del 3% necessaria per essere ammessi alla ripartizione dei seggi nei collegi plurinominali. Senza il paracadute parlamentare del Pd, tutti i suoi esponenti sarebbero rimasti a casa.
Basterebbe questo precedente, nel caso di elezioni anticipate date ormai come inevitabili già dopo l’estate, per sconsigliare la creazione di un’union sacrée europeista – da Renzi a Berlusconi,
di Alessandro Campi

9b1b3f94-0ccf-11e8-8543-41fe3d3d3c7bUn partito denominato ‘Forza Europa’ l’abbiamo già avuto alle elezioni dello scorso 4 marzo. Ha ottenuto il 2,6% dei voti: sotto dunque la soglia del 3% necessaria per essere ammessi alla ripartizione dei seggi nei collegi plurinominali. Senza il paracadute parlamentare del Pd, tutti i suoi esponenti sarebbero rimasti a casa.

Basterebbe questo precedente, nel caso di elezioni anticipate date ormai come inevitabili già dopo l’estate, per sconsigliare la creazione di un’union sacrée europeista – da Renzi a Berlusconi, dai radicali alla sinistra anti-renziana, guidata magari da Carlo Calenda – che avrebbe come obiettivo epocale di sbarrare il passo alla marea montante del populismo anti-europeo. Ammesso che una simile aggregazione possa nascere, che possibilità ha di essere realmente competitiva? Le basterà invocare ‘più Europa’ per strappare elettori al fronte euroscettico? E quanto è desiderabile (e utile) una campagna elettorale tutta giocata sullo scontro tra Europa e anti-Europa? Il rischio infatti è di andare incontro, ammesso possa mai nascere una simile aggregazione, ad un’epocale sconfitta. Ma andiamo con ordine.

Il refrain oggi di moda è che non esistono più la destra e la sinistra. A sostenerlo sono gli stessi che quando, quindici o più anni fa, già si argomentava il declino di questa storica dicotomia facevano spallucce come se si trattasse intellettualmente di una sciocchezza. Secondo costoro chi metteva in dubbio l’utilità della coppia destra-sinistra era qualcuno interessato ad alterare il gioco della democrazia parlamentare, che da sempre vive di questa polarità. Ma il tempo, come suole dirsi, passa per tutti. Meglio arrivare tardi a comprendere i cambiamenti della politica che mai. Il problema però è cosa abbia preso il posto di una distinzione che, finite le ideologie otto-novecentesche che in gran parte la giustificavano, ha smesso di mobilitare gli animi e di funzionare come linea di demarcazione dello spazio politico.

A sentire molti giudizi e ragionamenti in queste settimane, in particolare dopo le ultime elezioni politiche, il nuovo confine – politico, ma anche valoriale – intorno al quale si è ridefinito il nostro sistema dei partiti è quello tra sovranismo/populismo ed europeismo. Una fotografia del nuovo panorama politico che però implica anche un giudizio di valore pesantemente negativo per una delle famiglie in campo. Nella narrazione offerta dai media e dal mondo culturale mainstream, infatti, i sovranisti sono per definizione cattivi e pericolosi: si muovono contro il vento della storia, alimentano la demagogia e la protesta, vogliono soltanto distruggere, obbediscono a idee e pulsioni ostili alla democrazia e alla pacifica convivenza. Laddove gli europeisti, va da sé, sono quelli che difendono con coraggio la libertà, lo spirito di fratellanza, il grande sogno di un continente che vive in armonia e nella prosperità.

Insomma, i cattivi contro i buoni. Il torto da una parte, la ragione dall’altra, senza discussioni o dubbi. E proprio questa nuova distinzione sarà – anzi, deve essere – la posta in gioco della prossima campagna elettorale. Rispetto ad essa gli elettori, chiamati a pronunciarsi in una fase delicatissima della vita istituzionale italiana, dovranno decidere una volta per tutte da che parte stare.

La chiamata alle armi, a sentire ieri alcune dichiarazioni, sembra già partita, ma sicuri che si tratti di un’idea politicamente buona e soprattutto vincente nelle urne? In realtà, sono diverse le ragioni che sconsiglierebbero di arrivare ad una polarizzazione tra sovranismo ed europeismo.

Se i populisti, come si dice, basano la loro propaganda su contrapposizioni elementari – Noi/Loro, Popolo/Casta – perché servirgli su un piatto d’argento l’occasione di trasformare le elezioni in un referendum monotematico che se perso dal fronte europeista a quel punto metterebbe l’Italia in una condizione davvero insostenibile? In questo momento esiste in Italia un sentimento collettivo tendenzialmente ostile all’Europa o critico verso quest’ultima, che va bel oltre il recinto elettorale della Lega e del M5S. Chi può sfruttarlo se non coloro a cui si offrirà, anche al di là delle proprie buone intenzioni, l’Unione europea come facile bersaglio polemico? Facile prevedere l’esito, al termine di una campagna inevitabilmente drammatica, se la scelta sarà tra l’Europa delle élites e l’Italia del popolo.

Fare dell’Europa il tema unico e dirimente delle prossime elezioni potrebbe inoltre spingere Lega e M5S a coalizzarsi e a unire le forze. La proiezione alle urne di un cartello tra queste due forze, con la legge elettorale vigente e con gli attuali rapporti di forza, potrebbe significare, come ha mostrato l’Istituto Cattaneo, una loro schiacciante vittoria nel 90% dei collegi.

Un altro effetto negativo, per come si è malamente concluso il tentativo di far nascere un governo giallo-verde, è che nello scontro a due che si profila tra europeisti e populisti si finisca, anche solo involontariamente, per trasformare il Capo dello Stato nel portabandiera del primo schieramento. Per il Quirinale, sul quale grillini e leghisti già stanno riversando l’accusa di aver boicottato il loro accordo venendo meno al suo dovere di imparzialità, sarebbe un grave e ulteriore danno dal punto di vista istituzionale.

C’è poi il rischio di imbracciare pregiudizialmente e senza alcuno spirito critico la causa dell’Europa. Ciò significherebbe lasciare interamente ai sovranisti la difesa (anche se solo verbale e per slogan) degli interessi nazionali dell’Italia: lo sbaglio peggiore, dal punto di vista politico-culturale, che i fautori dell’Europa potrebbero commettere, avendolo già commesso nel recente passato. Quando questi ultimi invocano Macron come esempio da replicare, per via del suo europeismo a prova di bomba che gli avrebbe consentito di sconfiggere il sovranismo lepenista, semplicemente dimenticano che il giovane inquilino dell’Eliseo vede nell’integrazione europea non un fine in sé, ma lo spazio politico attraverso il quale, in un mondo globalizzato che ha molto ridotto la capacità d’azione dei singoli Stati nazionali, provare ad accrescere la potenza francese. Dal suo punto di vista, ricollocare la Francia al centro del gioco politico europeo è il modo migliore per aumentarne la capacità di influenza nel sistema internazionale e difenderne gli interessi strategici in una prospettiva globale. Non è propriamente la stessa visione dell’europeismo che circola nel nostro Paese, spesso puramente retorico, declamatorio e compensativo di una visione degli interessi nazionali italiani che nella cultura politica della nostra classe dirigente non si riesce più nemmeno a definire secondo una chiara gerarchia.

Gli europeisti del Belpaese, da quel che alcuni di loro vanno sostenendo, dovrebbero coraggiosamente presentarsi alle urne come il Bene in lotta contro il Male del nazional-populismo rappresentato da Salvini e Di Maio. Ma piuttosto che cedere ad un simile manicheismo, peraltro speculare a quello che si critica nei nemici dell’Europa, forse sarebbe meglio provare a farsi carico delle serie (e talvolta persino buone) motivazioni che ne alimentano il consenso, senza ovviamente dover condividere le loro ricette o soluzioni. I meccanismi tecnico-burocratici ed economico-finanziari che attualmente governano l’Unione non sono solo oltremodo pervasivi e spesso non legittimati dal punto di vista delle procedure democratiche, ma non riescono più a promuovere benessere economico e a garantire un’autentica giustizia sociale. I primi a chiederne una radicale riforma nell’interesse dei cittadini dovrebbero essere proprio coloro che paventano la paralisi del processo d’integrazione. Per neutralizzare i sovranisti bisogna togliere loro argomenti, ragioni e pretesti polemici. Non basta gridargli in faccia ‘Forza Europa’ o chiedere agli elettori, quando presto torneremo alle urne, una scelta di campo che rischia di somigliare ad un atto di fede.

La politica, al di là delle intenzioni e degli auspici di chi la osserva e descrive, spesso segue un suo corso autonomo, talvolta necessario, talaltra inevitabile. Ciò significa che la battaglia finale tra europeisti e sovranisti, per quanto poco auspicabile per le ragioni appena indicate, difficilmente potrà essere evitata. C’è solo da sperare, se così andranno le cose, che al di là delle profonde divisioni che inevitabilmente si produrranno nel Paese, già ben visibili, ne sortisca anche qualcosa di buono.

Ammettendo che nessuno dei due fronti prevalga sull’altro in modo schiacciante, dal momento che le attuali preferenze degli elettori potrebbero disporsi diversamente da come è accaduto lo scorso marzo a fronte di una nuova offerta politica, si può infatti immaginare che l’aver giocato tutto sul tema dell’Europa metterà il vincitore, quale che sia, nella condizione di avere maggiore potere negoziale nel rapporto con l’Unione e con i partner dell’Italia. In fondo tutti – europeisti dogmatici e critici risoluti dell’Europa – sono convinti che la via da seguire sia quella pragmatica di una profonda riforma dei meccanismi tecnico-burocratici ed economico-finanziari che attualmente governano l’Unione. Un conto è teorizzare in un libro l’uscita dall’euro, un conto è volerla politicamente e considerarla praticabile. Chiunque dovesse vincere nella contrapposizione tra sovranisti ed europeisti, potrebbe dunque spendere il proprio consenso interno per rinegoziare la posizione dell’Italia nel contesto europeo e per contribuire a quella riforma dell’eurozona che stenta a partire ma che tutti, al punto cui siamo arrivati, ritengono indispensabile. Se così andranno le cose, il duro scontro al quale ci apprestiamo sarà almeno servito a qualcosa.

 

 

 

 

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