di Carlo Pulsoni
Ci sono riti scaramantici, inconsci o meno, con i quali ci illudiamo di poter scongiurare gli eventi infausti o perfino modificarli a nostro vantaggio. Chi scrive li pratica, come gran parte degli italiani (Fantozzi docet), durante le partite di calcio. Decisamente più grave è quando questi costumi comportano la rimozione del nome di uno studioso di vaglia perché considerato iettatore.
Mi riferisco alla sorte toccata a Mario Praz (nella foto a sinistra),
di Carlo Pulsoni

Ci sono riti scaramantici, inconsci o meno, con i quali ci illudiamo di poter scongiurare gli eventi infausti o perfino modificarli a nostro vantaggio. Chi scrive li pratica, come gran parte degli italiani (Fantozzi docet), durante le partite di calcio. Decisamente più grave è quando questi costumi comportano la rimozione del nome di uno studioso di vaglia perché considerato iettatore.

Mi riferisco alla sorte toccata a Mario Praz (nella foto a sinistra), la cui fama sinistra, che lo ha accompagnato lungo tutto l’arco della sua vita, lo rese anche squisitamente autoironico. È sufficiente rimandare a quanto scrive Indro Montanelli, nella sua famigerata Stanza il 31 maggio 2000: «Una volta un grande imprenditore di lavori pubblici, Astaldi, amico mio e suo, c’invitò entrambi a un viaggio sul suo aereo privato in Arabia per visitare non ricordo se un faraonico ponte o diga che stava costruendo laggiù. Andammo. Mentre attraversavamo il deserto, fummo investiti da una tempesta di sabbia che, oltre a sbatterci di qua e di là, c’impediva di distinguere il cielo dalla terra. Confesso che in quel momento ebbi qualche dubbio sulla leggenda dei malefici di Praz. Il quale, intuendo i miei pensieri, mi mormorò all’orecchio: “Di che ti preoccupi? Sono qui anch’io. Il malocchio non tocca i propri agenti”».

In realtà anche dopo morto, il nome di Praz continua a essere impronunciabile. Per i più resta “l’illustre anglista”, anche se «classificare Mario Praz principalmente come critico letterario e specialista di cultura inglese è un vasto fraintendimento del suo ruolo. Si dovrebbe considerarlo soprattutto come artista, e nemmeno artista letterario poiché i risultati delle sue attività come collezionista di mobili, quadri e objets d’art sono parte dell’opera né più né meno che i libri» (Edmund Wilson). Ben ha fatto pertanto Raffaele Manica a intitolare il suo ultimo libro dedicato allo studioso proprio col suo cognome Praz (Trieste-Roma, Italosvevo Edizioni, 2018).

Manica ricostruisce il profilo critico di Praz – che fu anche un grande scrittore di cose politiche: basti pensare ai suo saggi sulla fortuna di Machiavelli in Inghilterra e alle sue ricerche sull’emblematica e sul simbolismo politico – e la sua cifra stilistica a partire dai Saggi di Elia di Charles Lamb «scelti, tradotti, introdotti e annotati nel 1924 per le edizioni Carabba di Lanciano, il primo libro a portare in copertina il suo nome, benché non in veste d’autore». Seguiranno negli anni molti altri volumi, tra cui il più noto è certamente La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, edito per la prima volta nel 1930 (Milano-Roma, La Cultura). Questo volume procurò a Praz da un lato la consacrazione internazionale, ma dall’altro una feroce stroncatura da parte di Benedetto Croce nella rivista La critica (XXIX, 2, 20 marzo 1931, pp. 133-134). Come rileva Manica, si trattava in realtà di un problema di prospettiva degli argomenti trattati totalmente inconciliabile tra i due, motivo per cui «si potrebbe convenire che Croce aveva ragione, ma Praz non aveva torto; o meglio, e non è proprio lo stesso, che Praz aveva ragione, ma Croce non aveva torto. Il conflitto fu tipicamente familiare: un padre alle prese con un figlio che non solo sembrava fraintendere la lezione impartita, ma la poneva al centro del proprio riflettere, con principî e metodi poco ortodossi».

Manica rileva inoltre la tendenza di Praz ad accrescere di volta in volta i propri libri in vista di una riedizione. Da parte mia confermo questa intuizione segnalando che nella Fondazione Primoli di Roma giacciono praticamente inedite le varie stesure della traduzione di Praz del poema The Waste Land di Thomas Stearns Eliot, a partire dal dattiloscritto che è il modello della prima versione uscita in Circoli. Rivista di poesia (n. 4 del luglio-agosto 1932, pp. 27-57). Nella copia personale del fascicolo della rivista, Praz appone numerose varianti manoscritte, segno di una meticolosa rilettura del lavoro in vista di una ripubblicazione, cosa che effettivamente avrà luogo nel 1949 a Firenze per i tipi di Fussi. Anche in questo caso la copia di Praz reca ulteriori correzioni e rimaneggiamenti, nell’ottica del volume che vedrà la luce per Einaudi, ovvero T.S. Eliot, La Terra desolata, Frammento di un agone, Marcia trionfale. Prefazione e traduzione a cura di Mario Praz, Torino, Einaudi, 1965. Perfino in quest’ultima copia si ravvisano integrazioni al commento, con aggiunte bibliografiche anche degli anni Settanta.

Un raffinato studioso e intellettuale, insomma, che meriterebbe di essere menzionato, in barba a perifrasi (“l’innominabile”, “il maligno”) e scaramantici silenzi, solo come Mario Praz.

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