di Valerio Acri
“L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Quando il 9 maggio 1950 l’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman prese la parola nella Sala dell’Orologio dell’omonimo dicastero di Parigi lo fece per dar voce a un grido di pace che emanava dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale riecheggiando in ogni angolo del Vecchio Continente.
di Valerio Acri

“L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Quando il 9 maggio 1950 l’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman prese la parola nella Sala dell’Orologio dell’omonimo dicastero di Parigi lo fece per dar voce a un grido di pace che emanava dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale riecheggiando in ogni angolo del Vecchio Continente. La sua Dichiarazione non sancì solamente la presa di coscienza di una necessità storica, quella di cominciare un processo di integrazione europea rispetto al quale si sono poi registrate nel corso del tempo posizioni di ordine ideologico differenti tra loro nella maniera di prevederne la realizzazione. Le parole di Schuman segnarono di fatto anche l’investitura di un ideale che oltre mezzo secolo più tardi avrebbe ricevuto il riconoscimento di un Premio Nobel per la Pace. Una onorificenza ottenuta per “aver contribuito al progresso della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani nel Vecchio Continente lungo sei decenni”, secondo le motivazioni riconosciute dall’apposito Comitato il 12 ottobre 2012.

Il giorno della cerimonia ufficiale di consegna del premio il prestigioso Palazzo dei Nobel di Oslo sembrò per la verità avvolto da una fastidiosa sensazione di imbarazzo e non solamente perché il giorno precedente nella capitale norvegese, in una Nazione che per due volte, attraverso un referendum, aveva rifiutato la sua adesione alla UE, erano sfilati dei cortei anti-europeisti. A rovinare l’atmosfera ci furono anche i commenti aspri dell’allora Presidente ceko Vaclav Klaus, quelli critici di alcuni Nobel del passato e le sei sedie lasciate vuote da altrettanti leader di Stati membri – su tutte quella riservata all’ex premier britannico David Cameron, cocente presagio della Brexit.

In fondo, però, neppure questo sembrò riassumere davvero il distacco incredulo che accompagnò uno dei riti più solenni al mondo e che, in quella occasione, poteva anche assurgere a motivo d’orgoglio, un sussulto sentimentale a favore della coscienza di ogni cittadino europeo. Ciò che impedì davvero il compiacersi di un premio che non ha lasciato traccia alcuna nella memoria collettiva è l’incapacità a tutt’oggi di apprezzare questa Unione lontana anni luce da quella alla quale si aspirava nel momento in cui si decise, attraverso la Ceca, di mettere in comune risorse vitali come il carbone e l’acciaio.  In realtà, fermenti di progetti unitari emersero già dopo la Grande Guerra, quando nel 1929 un altro ministro degli Esteri francese, Aristide Briand, parlò per la prima volta di “Stati Uniti d’Europa” ispirandosi all’opera Pan-Europa scritta dal conte Coudenhove-Kalergi, il politico cosmopolita al quale ascrivere la paternità della proposta di costituire un asse franco-tedesco a partire da un patto intorno ai propulsori materiali del loro bellicismo.  Un appello che s’inabissò negli orrori del secondo conflitto mondiale per poi riaffiorare attraverso i primi esperimenti di condivisione, fino appunto alla Comunità del carbone e dell’acciaio del 1951, alla Comunità Economica Europea del 1957 e al Trattato dell’Eliseo siglato da Charles de Gaulle e Konrad Adenauer del 1963 che sancì la fine dell’inimicizia storica tra Francia e Germania.

Certamente l’anelito europeista del dopoguerra non è riproponibile per generazioni che, coerentemente con le motivazioni espresse dalla giurìa norvegese, considerano la pace un dato psicologicamente acquisito ma il punto è capire come poterlo alimentare una volta superate le ragioni per le quali nacque. In questo senso, è opportuno ricordare che esso non fu comunque sufficiente per realizzare il progetto di un comune esercito europeo di difesa, un autentico programma federalista che certamente avrebbe rappresentato uno stadio maturo verso il compimento di una effettiva unificazione politica. La Ced del 1952 sarebbe stata a tutti gli effetti una di quelle realizzazioni concrete alle quali alludeva la Dichiarazione Schuman, come certificato anche dalle parole di Alcide De Gasperi per il quale una comunità militare avrebbe consentito di apporre un tassello decisivo per lo sviluppo di una comunità politica. Ma neppure il sostegno della forte idealità di una classe dirigente di prim’ordine – nonchè la benedizione americana, nella persona del  segretario di Stato Usa Dean Acheson – potè evitare che la Comunità europea di difesa fosse avvertita alla fine come uno sforzo sovranazionale eccessivo e quindi abortita.

Non fu così invece quando si decise di compiere il passo verso l’unione monetaria, salvo poi accorgersi – alcuni Paesi più di altri – che essa richiede altrettanto una rinunzia alla propria piena sovranità e, assai peggio, rischia di indebolire le istituzioni democratiche fino a comprometterle. Alcuni studiosi – Sergio Romano su tutti – ritengono che nella scelta consapevole di questo azzardo fu in qualche modo determinante il cambiamento dello status della Germania, divenuta nuovamente “Mitteleuropa” a seguito della fine della Guerra Fredda e dell’unificazione avvenuta con la caduta del Muro di Berlino, così come anni prima l’idea della Ced fu inizialmente favorita dall’ascesa al potere di Josip Stalin in Urss avvertita come forte minaccia comune. Al di là dell’evidente influenza degli scenari internazionali e delle sue continue mutazioni, l’adozione di una moneta unica in assenza di un governo in grado di dirigere e amministrare l’economia dell’Eurozona era palesemente un tentare la sorte. Anche perché, mentre i vari Paesi decidevano ognuno di abbandonare la propria moneta in nome dell’euro, impegnandosi in sostanza a contenere disavanzo pubblico e debito pubblico entro parametri determinati, in ossequio a quanto stabilito nel 1991 a Maastricht, si faceva largo la speculazione finanziaria, la mutazione genetica del sistema bancario, la trasformazione dei mercati in case da gioco dove il profitto è uno scopo e mai un mezzo. In questa maniera anche tutte le misure anti-crisi successive a Maastricht, fino ai princìpi che regolano il bilancio contenuti nel fiscal compact del 2012, si sono sempre scontrate non soltanto con la complicata sostenibilità di un’area monetaria così vasta e priva di una politica fiscale e sociale unitaria, ma anche con il predominio dell’economia finanziarizzata su quella reale. Da prodotto dell’Occidente, la sovranità dei mercati è divenuto asse portante della crisi che ha investito questa Unione Europea e, con essa, la nostra capacità di crederci ancora. Perché, in fondo, al di là dell’euroscetticismo pulsante nel quale possono germogliare vecchi e nuovi nazionalismi, quel che fa più paura è la forza travolgente con la quale i mercati impongono decisioni, esercitano influenze, evocano catastrofi che invece vorrebbero scongiurare.

Forse si tratta di vagheggiare una Primavera Europea, o addirittura un nuovo Umanesimo, il rovesciamento del prevalere di interessi economici sulle aspirazioni idealistiche; oppure, più semplicemente, prenderci l’impegno di non dimenticare che la dolce speranza della pace di kantiana memoria è divenuta realtà e non rassegnarci all’idea che le sue condizioni di possibilità siano riassumibili solo e soltanto da un gioco a somma zero quale sembra essere questo tipo di unione. Magari aspettando che sulla scena politica internazionale compaiano statisti del profilo dei padri fondatori dell’Europa, che le riconoscano il diritto a dotarsi di una Costituzione – non di un Trattato semplificato come quello firmato nel 2007 a Lisbona – e, più in generale, rifiutino lo stare insieme solamente per paura delle conseguenze imprevedibili della fine dell’euro affrontando faccia a faccia le difficoltà del progetto di un’”unità delle volontà riunite”.

Intorno a questa complessità e alle tante tematiche che la scaturiscono si interroga Michele Gerace, presidente dell’Osservatorio sulle Strategie Europee, attraverso un agile volumetto e il filtro di parole-chiave come identità, consapevolezza, insieme, radici. Un libro che invita a inseguire la fiducia smarrita e raccoglie una suggestione nata un paio di anni prima, quella di ritrovarsi periodicamente a discorrere di Europa attraverso la sana pratica della conversazione civile, più o meno come si fa nelle serate di svago con gli amici nei cenacoli di un caffè o ai tavolini di un pub. Dal Bar Europa – divenuto nel frattempo anche appuntamento radiofonico settimanale – a “E’ l’Europa, bellezza!” (Rubbettino 2018), il senso ultimo è quello di dar vita a un contenitore di riflessioni sull’incompiutezza di un ideale che, per la sua nobiltà, deve essere invocato ancora e sempre da chiunque coltivi il desiderio meraviglioso di maturare un sentire europeo.

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