di Carlo Marsonet
Trattare un classico del pensiero non è mai facile. Se poi il classico in oggetto non può essere ascritto a una sola categoria disciplinare, bensì rientra, come pochi altri, nell’alveo dei pensatori eclettici e poliedrici, allora siamo di fronte a un lavoro che merita attenzione. Questo è il caso del volume dedicato ad Amartya Sen da parte di Mattia Baglieri: Amartya Sen. Welfare, educazione, capacità per il pensiero politico contemporaneo (Carocci 2019,
di Carlo Marsonet

Trattare un classico del pensiero non è mai facile. Se poi il classico in oggetto non può essere ascritto a una sola categoria disciplinare, bensì rientra, come pochi altri, nell’alveo dei pensatori eclettici e poliedrici, allora siamo di fronte a un lavoro che merita attenzione. Questo è il caso del volume dedicato ad Amartya Sen da parte di Mattia Baglieri: Amartya Sen. Welfare, educazione, capacità per il pensiero politico contemporaneo (Carocci 2019, pp. 236, 22 €). L’Autore, dottore di ricerca in storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna, cerca di ricostruire l’articolato pensiero seniano attraverso i numerosi riferimenti che spaziano dal pensiero occidentale – da Aristotele a Smith e Kant, per arrivare nel Novecento a Rawls e Berlin, solo per citare i principali – a quello indiano con Ashoka, Tagore e Gandhi, tessendo una trama che include il tema della libertà e dell’eguaglianza, dell’individuo e del suo rapporto con la società (e la comunità), della giustizia e del rapporto tra etica ed economia.

Gli interessi del pensatore indiano incrociano nel corso del tempo le discipline economiche così come la filosofia politica e morale, arrivando così a dipingere le scienze sociali non già come un campo costituito da entità chiuse ed impermeabili, bensì un mosaico aperto e policromo, fatto di tessere l’una indissolubilmente legata all’altra. Una visione, questa del pensatore, che fotografa, tra l’altro, la sua idea polifonica (ma non multiculturalista, perlomeno in senso forte) del concetto di cultura e identità. Il precipuo tentativo teorico di Amrtya Sen consiste nel rivedere dalle fondamenta il paradigma economico fondato sul principio di utilità e sulla concezione di giustizia e benessere imperniati sul mero possesso di beni e risorse materiali à la Rawls. Infatti, già negli anni ’80, con Equality of What? e Commodities and Capabilities viene delineandosi la prospettiva seniana oggi definita “approccio delle capacità” – da sottolineare che si tratta del principale riferimento teorico per l’elaborazione dello Human Development Index, sviluppato da Sen e dall’economista pakistano Mahbub ul Haq, impiegato nei report annuali sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite. Come riporta Baglieri, questa può essere descritta come «una teoria etico-politica che considera l’individuo umano in termini di libertà individuale di condurre una vita che l’essere umano stesso ritenga di valore (attraverso la fioritura delle potenzialità di ciascuno), piuttosto che alla stregua di mero agente economico dedito alla sola massimizzazione della propria utilità economica». In buona sostanza, tale approccio cerca di risanare quello iato che l’economia neoclassica avrebbe promosso fra il campo dell’economia e il campo dell’etica. Ma non solo. Infatti, vi sono almeno altri due principi che guidano l’impianto teorico di Sen: in primo luogo, la riscoperta dell’idea che esistano capacità individualmente intese che plasmino l’ideale di “vita buona”; in secondo luogo, la forte enfasi posta dal pensatore indiano sull’azione proattiva delle istituzioni pubbliche al fine di formare gli individui.

Quanto al primo punto, Sen rilegge l’Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali e Ricchezza delle nazioni con l’intento di ricongiungere la (presunta) discrasia venutasi a creare tra orizzonte economico ed orizzonte etico. Come scrive lo stesso moralista scozzese agli inizi dell’opera del 1759, «per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla». In altri termini, la “simpatia” dell’uomo, intesa come il sentimento che ci porta a partecipare emotivamente all’altrui situazione, denota il carattere profondamente sociale dello stesso. Al contempo, tuttavia, la socialità umana deve fronteggiare il carattere eminentemente individualistico della società che la modernità occidentale ha scoperto. Del resto, come notò anche Kant, l’uomo è caratterizzato dalla “ungesellige Geselligkeit”, dalla “insocievole socievolezza” che, sì, da un lato lo rende capace di provare empatia per il prossimo e di concepirsi come un essere bisognoso dell’altro per diventare ciò che è – del resto, non scrisse forse Popper che «non nasciamo come io, ma […] dobbiamo imparare a essere degli io»? – ma che, per contro, lo conduce naturalmente a pensare non più in modo tribalistico, bensì individualistico. In tal senso, e qui veniamo al secondo punto, il concetto di “vita buona” in una società aperta risulta altamente problematico, ma non per questo inaffrontabile (e inafferrabile). Conscio che esistono solo individui – ma non monadi – Sen si trova cordialmente in disaccordo con Martha Nussbaum – autrice profondamente collegata all’indiano, come si evince dal libro di Baglieri – la quale riduce deterministicamente l’idea di “vita buona” ad una lista chiusa di capacità che debbono essere assicurate a tutti. Contrariamente a ciò, Sen – e qui spicca l’afflato liberale del suo pensiero – lascia che ciascuno sia libero di stabilire quali capacità siano da preservare e quali no, in virtù di quel soggettivismo del giudizio che non può essere ostracizzato in una società aperta, altrimenti conducendola ad una più o meno marcata eticità della stessa e instradandola in un certo qual modo ad una società chiusa. Ma qual è il ruolo giocato dalle istituzioni pubbliche in tutto questo? Secondo Sen, esse hanno l’imprescindibile ruolo di formare gli individui – a tal proposito, Sen cita un passo preso da Adam Smith per fare meglio comprendere la sua idea: «Con una spesa molto piccola, lo Stato può facilitare, incoraggiare e anche imporre a quasi tutta la massa del popolo la necessità di apprendere queste parti più essenziali dell’educazione». Che ne è tuttavia del ruolo di tutte le agenzie di educazione pre-statali? Infatti, al di là dell’istruzione vera e propria, non si può sottacere il fondamentale ruolo svolto dall’educazione dell’individuo: prima, e forse ancor di più, del “buon cittadino” una società sana necessita di buoni individui – e di porre in essere le condizioni migliori affinché ciascuno possa sviluppare in modo pieno ed autentico le proprie capacità, andando ciò a vantaggio della società tutta. Come scrive Baglieri, «Nella prospettiva dell’approccio delle capacità, pertanto, soltanto una formazione “liberale-individualista” e in senso lato “cosmopolita”, conscia della diversità e corroborata da forti fonti storiche e molteplici fonti culturali, potrà portare al superamento dell’odierna “crisi della cittadinanza”, sulla base di una politica orientata alla libertà e al controllo del proprio ambiente sociale: un individuo così formato, infatti, saprà partecipare responsabilmente alle scelte politiche, godere delle garanzie di libertà di parola e di associazione, assurgere – in una parola – al ruolo di “cittadino democratico” in senso pieno».

Insomma, si tratta di un importante contributo al dibattito sul pensiero etico-politico ed economico. Se consideriamo, poi, che sono tempi in cui alle idee si preferiscono le pulsioni (sovente eterodirette), e al ragionamento scettico e meditato si prediligono le considerazioni manichee e dogmatiche, lo sforzo di Baglieri è ancor più lodevole. Al di là dei numerosi spunti di riflessione che il libro concede, quello che maggiormente lascia dei dubbi, almeno in chi scrive, riguarda il concetto di libertà, giacché, come si ricava dal lavoro di Baglieri, la libertà di Sen è prossima alla libertà positiva, per come intesa da Kant e ritratta da Berlin nel suo Two Concepts of Liberty. Nondimeno, la libertà negativa precede necessariamente la libertà positiva e, come affermò lo stesso filosofo naturalizzato britannico, «il contadino egiziano ha bisogno di vestiti o di medicine prima e di più che di libertà personale, ma quel minimo di libertà di cui ha bisogno oggi e la maggior libertà di cui può aver bisogno domani non è una specie di libertà che gli sia peculiare, ma è identica a quella dei professori, degli artisti e dei milionari».

* PhD candidate in “Politics: History, Theory, Science”, Luiss Guido Carli, Roma

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