di Danilo Breschi
È proprio finito il lungo dopoguerra. Quando? Nel 1989? Probabilmente sì, ma altrettanto probabilmente non ce ne accorgemmo qua in Occidente, al di là del Muro che andava giù, rovinando sull’intero impero sovietico. Scrive Marco Gervasoni nel suo ultimo libro: «come paiono lontane prestigiose figure come Luigi Einaudi e Friedrich von Hayek che, dopo la Seconda guerra mondiale, pensavano che la sovranità, un concetto per loro di scarsa rilevanza, sarebbe stata solo un ricordo» (La rivoluzione sovranista.
di Danilo Breschi

È proprio finito il lungo dopoguerra. Quando? Nel 1989? Probabilmente sì, ma altrettanto probabilmente non ce ne accorgemmo qua in Occidente, al di là del Muro che andava giù, rovinando sull’intero impero sovietico. Scrive Marco Gervasoni nel suo ultimo libro: «come paiono lontane prestigiose figure come Luigi Einaudi e Friedrich von Hayek che, dopo la Seconda guerra mondiale, pensavano che la sovranità, un concetto per loro di scarsa rilevanza, sarebbe stata solo un ricordo» (La rivoluzione sovranista. Il decennio che ha cambiato il mondo, Giubilei Regnani, Roma-Cesena, pp. 204, € 14, 2019, pp. 5-6). Ed è pertanto corretto dire che «se uno spettro si aggira oggi per il mondo è proprio quello della sovranità» (p. 6). In parte è frutto anche di quell’orami lontano 1989 europeo orientale. In parte cospicua e non còlta all’epoca. Il tema dell’identità e dell’autodeterminazione nazionale fu alla base del processo dissolutivo dell’URSS e del suo impero. Il 23 agosto del 1989 «tutte le campane dei paesi baltici hanno cominciato a suonare alle sei del pomeriggio. In quel momento la gente, oltre due milioni di persone, si era raccolta nelle strade e nelle piazze di Tallinn, di Riga, di Vilnius e di tutte le città e i borghi d’Estonia, Lettonia e Lituania, ha cominciato a mettersi in fila, uno accanto all’altro, stringendo la mano del vicino. La catena umana promossa dai Fronti popolari per ricordare la firma del patto germano-sovietico, che avrebbe portato i paesi baltici a perdere la loro indipendenza, ha raggiunto lo scopo di legare simbolicamente fra di loro le tre capitali».

È con queste parole commosse che Alberto Stabile redige per “la Repubblica” la cronaca del giorno precedente. E così prosegue: «Una folla che si direbbe familiare: uomini coi vestiti del lavoro e donne con la borsa della spesa; giovani in giacca a vento e anziani con le loro decorazioni appuntate sul vestito; piccole bianche mani di bambini che stringono mani adulte, le dita intrecciate tra di loro in un gesto che è di solidarietà, ma anche d’affetto. Quando si fa sera, tengono in mano delle candele, mentre il vento agita le bandiere con i colori nazionali blu, nero e bianco. Cantano l’inno dell’Estonia, intervallato soltanto dalla parola Vapadus (libertà) scandita in coro. Alcuni portano dei cartelli: “Russi tornatevene a casa”, c’è scritto. Oppure: “L’Estonia non apparterrà mai all’Urss”. Sono i giovani ad aprire la manifestazione, radunandosi proprio nello stesso luogo dove il 23 agosto di due anni fa si riunirono per chiedere, per la prima volta, che l’Urss ammettesse l’esistenza degli accordi segreti conclusi tra Stalin e Hitler. Allora erano appena in tremila e la protesta venne bollata dalle autorità e dal partito estone come estremista e manovrata dall’ Occidente. Oggi sono molti di più e i loro slogan corrono di bocca in bocca: Estonia libera, sovrana, indipendente. […] la parola chiave della manifestazione è libertà, la bandiera nazionale abbrunata. […] la stessa scena si ripeteva 600 chilometri più lontano, a Vilnius capitale della Lituania, quasi al confine con la grande Bielorussia. Qui, la folla è ancora più cospicua: mezzo milione di persone, dice l’agenzia Tass. […] a Riga, capitale della Lettonia, sulle rive del Baltico, altra gente accorreva a raccogliere l’appello del Fronte. In totale si calcola che più di un milione di persone abbiano sentito il bisogno di partecipare a questa manifestazione. Anche a Mosca si è avuta un dimostrazione di solidarietà con i popoli baltici. Circa duemila persone hanno cercato di riunirsi nella centralissima piazza Puskin». Nel gennaio del 1991 saranno ben 150.000 i moscoviti radunati in piazza per sostenere la rivendicazione d’indipendenza che le repubbliche baltiche avrebbero definitivamente ottenuto tra agosto e settembre di quell’anno. Da quella generalizzata ondata indipendentista e nazionale rinacque l’Europa (orientale) dei popoli e degli Stati sovrani. Non a caso le rivoluzioni del 1989 sono note anche come “Autunno delle nazioni”, una sorta di novello Quarantotto europeo. Ad Ovest, al di qua del Muro, invece, ebbe avvio quel che Gervasoni ribattezza l’Età delle illusioni, periodo che va dal 1989 al 2008, in cui «tra i tanti abbagli che si diffusero c’era anche quello della fine della nazione» (p. 11). Il messaggio dal Baltico non giunse in Occidente, se non un’eco distorta ed equivocata.

Il ventennio post-1989 si è contraddistinto per un ottimismo rivelatosi infine malfondato. La fiducia nelle virtù taumaturgiche della globalizzazione e di un mercato mondiale deregolato è franata definitivamente con la grande recessione post-2007. È stata l’ultima fase utopistica della nostra storia più recente. Già il 2001 aveva incrinato molte illusioni, ma la risposta americana in termini di esportazione della democrazia pareva muoversi nel solco di un pervicace ottimismo universalistico e, in fin dei conti, cosmopolitico. Che tu fossi Wasp (White anglo-saxon protestant) o iracheno, arabo o musulmano, la democrazia liberale non poteva che costituire il tuo orizzonte finale. Scenario di cui nemmeno Fukuyama era così spavaldamente sicuro tra 1989 e 1992, perché la fine placida della grande storia (hegeliana, tragicamente dinamica nella sua dialettica) era minacciata tanto dai risentimenti dell’“ultimo uomo” democratico quanto dal desiderio di riconoscimento di popoli non occidentali refrattari ad una supina omologazione americanomorfa.

Ciò su cui Gervasoni ci invita a riflettere è la natura moderna del sovranismo. Non si tratterebbe di veteronazionalismo, di un ritorno nostalgico al passato, quanto meno per le cause che hanno innescato questa reazione che sta rivoluzionando lo scenario politico e culturale europeo, se non occidentale. Esso sarebbe piuttosto un tentativo di risposta contemporanea ad una situazione sociale, economica e culturale prodotta da tre diverse rivoluzioni: quella individualistica, quella manageriale e quella digitale. Tutte e tre queste rivoluzioni, figlie di processi iniziati quanto meno dopo il 1945, hanno ricevuto un impulso acceleratore formidabile con la svolta storica del 1989. Su società occidentali (e relativi sistemi politico-istituzionali) destrutturate ed infragilite da questo tipo di trasformazioni si sono abbattute due ulteriori tempeste, impreviste o sottovalutate: la Grande Recessione del 2007-2008 e la crisi migratoria. La sottovalutazione, prima, e l’impotenza, poi, mostrate nei confronti di questi veri e propri attacchi alla stabilità economica e sociale euro-americana sono anche la conseguenza di un abbassamento della qualità politica media della classe politica al governo. Gervasoni sottolinea quanto «l’idea della supremazia della tecnica di gestione (management) e dell’economico sul politico ha prodotto negli ultimi decenni, più che veri leader politici, funzionari e manager della cosa pubblica: quella che De Gaulle chiamava l’intendence, che deve “seguire” il politico» (p. 36).

Una classe politica che, ad esempio all’interno dell’Ue, non ha mostrato alcuna capacità né di predizione né di lettura di quanto si stava muovendo sul piano internazionale, e che nemmeno è stata in grado di prendere decisioni al momento giusto. Temporeggiare in nome di «una politica della mediazione e del rinvio infinito» di cui Angela Merkel si è rivelata impareggiabile maestra (p. 39). Ma, questi nostri, sono tempi storici eccezionali che richiedono lungimiranza e coraggio. E qui emerge anche, a mio avviso, tutta la debolezza di liberaldemocrazie invecchiate da una fase storica di tutela esterna protrattasi troppo a lungo. Mi riferisco a quelle europee, che si sono instaurate e consolidate potendo usufruire dopo il 1945 di alcune condizioni geopolitiche che hanno garantito un lunghissimo periodo di pace, prosperità economica e stabilità politica. Si tratta, come sottolinea Angelo Panebianco in un suo recente saggio (L’Europa sospesa tra Occidente e Oriente, in A. Panebianco – S. Belardinelli, All’alba di un nuovo mondo, il Mulino, Bologna 2019, pp. 132, €12), dell’egemonia militare statunitense, per cui gli europei hanno consegnato warfare all’esterno per poter impiantare e implementare welfare all’interno dei propri Stati. Un’egemonia liberale che, in cambio del riconoscimento di una leadership, ha consentito di importare tutta una serie di “beni pubblici”: stabilità monetaria, sostegno e protezione della libertà di commercio, oltre alla già menzionata sicurezza militare sotto l’ombrello della Nato. Tutela esterna che ha consentito pure l’avvio del processo di costruzione europea, indubbio frutto del coraggio e della lungimiranza politici di leader europei di cui non possiamo non avere nostalgia.

Entrambe le gambe che hanno sostenuto per quasi un cinquantennio la comunità occidentale, qui intesa come Europa + Stati Uniti, vacillano e ondeggiano paurosamente. In ogni caso, si tratta di una storia irripetibile dopo il 1989 e dopo l’11 settembre del 2001. E ancora Panebianco pone alcune questioni sul tappeto di un’agenda europea che dovrebbe celebrare il trentennale della caduta del Muro di Berlino impegnandosi seriamente a rispondere ad esse con alcuni primi atti concreti. Prima questione, delicatissima ma cruciale, ineludibile: come si può fare un’unificazione politica quando non è possibile stabilire con sicurezza dove vadano collocati i confini? A Est e a Sud dove sono i confini dell’Europa? C’è poco da fare, puntualizza Panebianco, «se non si possono stabilire chiari confini, decidere chi è dentro e chi è fuori, distinguere l’ingroup dagli outgroups, non è possibile nemmeno costruire una comune identità politica» (pp. 46-47).

I confini non sono muri, tanto meno del tipo di quelli per trattenere coatte le persone dentro regimi oppressivi come accadeva con la Cortina di Ferro. I confini sono qualcosa da non trattare con sufficienza o ingenuità. Ha ragione Charles S. Maier nel sottolineare di recente il fatto che «non dobbiamo cercare di superare troppo rapidamente la territorialità. Il territorio è ancora il punto di riferimento emotivo dell’appartenenza legale e rinunciarvi potrebbe non solo far progredire il cosmopolitismo, ma anche legittimare ogni sorta di lealtà ancora più “primitiva”: famiglia, razza, ascendenza e religione. Può apparire una forma primaria di fedeltà, tuttavia è spesso meno brutale di altre» (Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 a oggi, Einaudi, Torino 2019, p. 352). Per tutto questo ci mancano il lessico e il clima culturale adeguato a far sì che una mentalità collettiva, quella europea, resti tanto pluralistica quanto consapevole che ci si apre fra soggetti costituiti e la diversità si fa realtà vissuta tra soggetti distinti e definiti, in tendenziale simmetria, altrimenti non c’è comunicazione e scambio, ma indifferenza o paura reciproca. Nell’asimmetria tra un soggetto definito e uno indefinito, poi, lo scivolamento verso il dominio del primo sul secondo è un attimo. Anche di questo ci narra la memoria del 1989 europeo.

(fine seconda parte)

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