di Stefano Berni
Prendo spunto da una riflessione di Danilo Breschi (La democrazia come autogoverno della paura, “Il corriere nazionale”, 22 aprile) che in suo intervento fornisce un’analisi interessante sulla situazione attuale che stiamo vivendo rispetto al coronavirus e che consente anche a me di poter riflettere e intervenire sul tema. Una sua affermazione mi ha molto colpito: “la libertà è il contrario della paura”. È vero che di solito la libertà è sempre stata collegata per opposizione alla sicurezza,
di Stefano Berni

Prendo spunto da una riflessione di Danilo Breschi (La democrazia come autogoverno della paura, “Il corriere nazionale”, 22 aprile) che in suo intervento fornisce un’analisi interessante sulla situazione attuale che stiamo vivendo rispetto al coronavirus e che consente anche a me di poter riflettere e intervenire sul tema. Una sua affermazione mi ha molto colpito: “la libertà è il contrario della paura”. È vero che di solito la libertà è sempre stata collegata per opposizione alla sicurezza, e che la sicurezza è considerata come una risposta adattativa alla paura. Nella storia della filosofia politica si sono sempre indicati almeno due schieramenti avversi: coloro i quali erano preoccupati di risolvere i problemi relativi alla protezione dei cittadini, penso a Machiavelli e a Hobbes, e coloro i quali invece erano più preoccupati di fornire una libertà soprattutto rispetto a un potere tirannico: Rousseau e Marx. Nel primo caso si chiedeva un potere che garantisse il diritto di protezione, nel secondo caso si riconosceva al cittadino il diritto di muoversi e agire liberamente. Nel primo caso i cittadini sono visti più come una popolazione ammansita, una massa minacciata che, in preda alla paura, tende ad unirsi ma anche ad assoggettarsi. Nel secondo caso i cittadini divengono una “massa aizzata”, per dirla con Canetti, pronta a rivoltarsi e a ribellarsi.

Tuttavia, se riflettiamo più attentamente, mi sembra che in fondo entrambi gli atteggiamenti sorgano dallo stesso tipo di emozione: la paura. Mi spiego meglio. Vi è un’idea di libertà intesa come liberazione (free-dom) che potremmo concepire come la paura di un ordine, di un potere oppressivo, di una dura obbedienza. Semmai, rispetto al primo tipo di massa, la massa aizzata riesce a vincere la paura, a darsi coraggio. Il coraggio, si sa, è un sentimento che nasce proprio nel contenere la propria paura. La sicurezza invece è la paura del disordine, dell’incertezza, della disobbedienza.

Entrambi gli atteggiamenti – quello di sfuggire all’ordine e quello di volere un ordine – sono solidali nel senso che sono le facce della stessa medaglia: non si può fare a meno di tenerli insieme, perché nascono, appunto dalla stessa emozione, la paura; ma le emozioni sono inevitabili, incancellabili; provengono da pulsioni che si attivano nel nostro cervello di animale, quello formatosi centinaia di milioni di anni fa e che ha permesso ai primati e più recentemente agli ominidi,  di fuggire di fronte a un pericolo, di rintanarsi in una caverna o al contrario di reagire coraggiosamente e aggredire e sopraffare il nemico. Non si può fare a meno della libertà ma neanche della sicurezza. Entrambi le istanze hanno le loro ragioni naturali. Non si può fare a meno della libertà, se la intendiamo come assunzione di responsabilità individuale (liberty) ma neanche del potere, se lo intendiamo come giustizia, regole sociali condivise. Una società che non si basasse minimamente sul criterio di obbedienza sarebbe una società continuamente minacciata da sé stessa.

Tra queste due tipi di paure interviene spesso una terza paura ancora più esiziale, che è quella di rimanere senza cibo e rischiare di morire di fame. Se perdere il lavoro significa oggi mettere a repentaglio la propria vita, dobbiamo scegliere, come chi si trovava in un castello assediato: decidere se rimanere arroccati nelle nostre abitazioni con la paura di morire di fame o uscire e affrontare il nemico invisibile. Se tale decisione è dettata da una necessità fisiologica, la fame appunto, dovremo prenderla sul serio e attivare tutti gli strumenti per portare aiuti agli amici assediati o liberarli definitivamente dal nemico invisibile, ma usando molta cautela, con prudenza, utilizzando tattica e strategia, come durante un assedio. Tra l’altro, molti, rispetto al coronavirus, hanno utilizzato la metafora della guerra. Appunto, una metafora. La guerra non è il coronavirus, ma vi assomiglia. Molti si sono affrettati a prendere le distanze da questa similitudine. Eppure vi sono, soprattutto nei comportamenti da tenere dei cittadini, forti somiglianze. Più l’esercito dei cittadini è coeso, leale e rispettoso delle regole e meno il virus si potrà diffondere. La fedeltà al gruppo è centrale, chi disubbidisce non rispettando gli obblighi, è ritenuto un traditore perché mette a repentaglio la vita di un altro. Il potere viene delegato ad un leader, ad un primo ministro, che consultandosi con una ridotta schiera di scienziati (della guerra) deve prendere le decisioni rapidamente in una situazione che è in tutta evidenza e fortunatamente, si spera, uno stato di eccezione. Le decisioni, come tutte le decisioni di fronte alla mobilità e alla non conoscenza del nemico, sono rivedibili, correggibili e talvolta lacunose. Gli stessi scienziati, come i generali durante una guerra, non conoscono bene la natura del nuovo virus e essi stessi si trovano in difficoltà a prevedere i suoi effetti sulla popolazione e anticipare e prevenire le sue mosse.

Vi sarebbe un’ulteriore opzione, più tranchant, quella di liberare tutti, come propone Agamben, richiamandosi ad una astratta idea di libertà. Questa idea di libertà non nasce dalla paura (ricordo che la paura per gli psicologi è una emozione adattativa che funziona come campanello di allarme di fronte ad un pericolo reale) ma perché vi sarebbe un nemico invisibile ancora più invisibile del coronavirus che controlla e decide per noi. Il nemico non sarebbe il virus ma lo Stato stesso, il più gelido dei mostri, che vieta la libera circolazione delle persone; pertanto in nome di una vita vissuta (bios) rispetto alla nuda vita di animale (zoe) che pensa solo al mangiare, al difendersi e al sopravvivere, occorrerebbe sfidare le disposizioni e le leggi del Potere perché non permetterebbe la vera Libertà. È evidente tuttavia che l’idea di zoe intesa come nuda vita da Arendt e utilizzata per indicare la vita delle persone nei campi di concentramento, non può avere niente a che fare con la nostra attuale situazione di uomini costretti a stare in casa. Molti dei quali fra l’altro accettano convintamente le regole dello Stato ritenute giuste. Ma quale sarebbe la motivazione di un potere che si era trasformato nel tempo in un biopotere (Foucault) al fine di far lavorare e produrre sempre di più, rispetto a questo tipo di biopotere, che ha a che fare sì con la vita della popolazione ma che ci costringe per mesi in casa congelando lo sviluppo economico?

Insomma, in questo momento, quest’ultima ipotesi mi sembra la meno razionale, soprattutto perché non tiene conto dei naturali atteggiamenti umani di cui parlavo prima. Se l’atteggiamento di un pauroso infatti può apparire nevrotico, angosciato, l’atteggiamento di chi si richiama ad un astratto concetto di libertà, perché si sente minacciato da un potere leviatanico, tentacolare, onnipervasivo, mi sembra un atteggiamento, come spesso è stato descritto, psicotico, allucinatorio, paranoico. La paranoia in politica infatti non è il sospettare, che è un’azione altamente filosofica – infatti il filosofo del sospetto sospetta anche di sé stesso e del suo proprio sospettare – ma è immaginare un ordine a cui non vogliamo sottomettersi. Il filosofo del sospetto teme che un evento possa arrecare danno; ha un atteggiamento tipicamente nevrotico. La questione dirimente è per lui: a chi serve questo? Il paranoico invece è uno psicotico, cerca piuttosto di trovare un colpevole, si sente perseguitato, cerca un capro espiatorio e lo trova. L’atteggiamento psicotico, la paranoia, non viene dalla paura, come alcuni sostengono, ma da un delirio di onnipotenza o semplicemente da una visione distorta del reale causato da variazioni umorali a livello cerebrale determinate dalle dopamine. Il paranoico è convinto del complotto, qualsiasi esso sia. Teme la contraddizione e il contraddittorio. Crede che sia vero quello che asserisce, non dubita affatto. Così, tutti coloro i quali credono che il coronavirus sia un’arma di distruzione di massa, creata in laboratorio di una potente nazione, pronta non solo a colpire i nemici esterni ma anche quelli interni, sarebbe stata prodotta dall’odio verso l’umanità. Oppure si proclama a gran voce che il virus, chiunque l’abbia prodotto, ci tolga la libertà di movimento e ci tenga prigionieri nelle nostre case. Questo per colpire l’economia e la libera circolazione di merci e uomini. Ciò sarebbe avvenuto per negare l’essenza dell’uomo: la sua libertà. Ma quante libertà ci sono? Come se prima della libertà non ci fosse il pane e la vita stessa. Politici e filosofi “psicotici” di entrambi gli schieramenti avversi ma accomunati da una stessa malattia mentale, con la stessa idea di libertà, riescono in ogni caso a litigare perché l’uno riconoscerebbe nella forzata serrata del lavoro un colpo al cuore della libertà economica, l’altro colpevolizzerebbe il liberismo perché avrebbe architettato a tavolino il piano di una crisi ciclica per far ripartire i consumi e per decimare i più anziani non più produttori e dunque colpevoli di non lavorare e passibili di venire uccisi.

Molti non adattano mai la loro opinione sulla base della situazione in corso, ma al contrario adattano il mondo sulla base della loro idea. Tale mancanza di sensibilità politica ma tutta ideologica è quello definisco il feticismo dell’idea. Ci si innamora narcisisticamente di una ideologia e la si coltiva e la si utilizza come pietra di paragone rispetto a quello che succede. Ma la realtà è molto più complessa e mutevole delle nostre idee, e dovremo essere capaci, almeno noi filosofi, di riadattare i nostri metri di giudizio, i nostri parametri concettuali sulla base della realtà stessa. L’attuale pandemia ha sorpreso un po’ tutti ma, come i grandi sconvolgimenti, come per esempio è accaduto per il disastro di Cernobyl o la caduta delle Torri gemelle, dovrebbe farci ripensare completamente il nostro modo di riflettere e di agire. Spesso le crisi possono anche insegnare a modificare, appunto, i nostri modi di vivere antiquati e abitudinari. La crisi ci fornisce una grande occasione di ripensare l’intera nostra esistenza. Oggi dovremmo ripensare il mondo del lavoro e i modi di produzione, per esempio lavorare da casa, per consentire di evitare gli spostamenti (molti perdono migliaia di ore della propria vita nel traffico per raggiungere il posto di lavoro); ripensare il rapporto con la natura, evitando di inquinare, liberandosi finalmente dal petrolio e spingere su forme di energia alternativa. Ripensare in generale l’economia ridistribuendo almeno in parte le ingenti ricchezze concentrate in poche mani. Ripensare la comunità intesa non come un aggregato di individui atomizzati, come vorrebbe il neoliberismo, ma neanche riproporre una massa violenta e accecata dalle ideologie. Ripensare lo Stato: più welfare, almeno riguardo alla sanità, alla scuola. Ripensare il ruolo fondamentale dell’agricoltura. Ripensare la globalizzazione. Ripensare il tempo: un’idea di vita più lenta, più capace di ritagliare tempi personali più creativi e ricreativi. Ripensare i rapporti sociali: spesso le città spingono tutti a correre e a lavorare senza poter vivere veramente le relazioni affettive che sono divenute tutte virtuali producendo sempre più individui autistici, autarchici: l’amico ormai è l’amico su facebook e niente altro. Le relazioni emotive, familiari, sentimentali, amicali sono ormai cancellate. Il distanziamento sociale temuto da Agamben, (Distanziamento sociale, 6 aprile, in “Quodlibet”) nei fatti si era già realizzato. Infatti, più i corpi sono costretti dalla vita sociale delle megalopoli a restare strettamente in contatto, più il disgusto nell’essere toccati aumenta. Si potrebbe dire che oggi vale ancora la frase enigmatica di Aristotele: “amici, non c’è alcun amico”. Forse un sano allontanamento sociale ci permetterà di rivalutare anche l’amore verso il prossimo. La vita spesso ci impartisce dure lezioni ma starà a noi coglierne il senso e la direzione.

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