di Carlo Marsonet
La produzione scientifica inerente ai temi del populismo e della democrazia è sempre più copiosa. Da un lato è certamente un bene, giacché la ricerca non arriva mai a una conclusione, a una verità definitiva. Se così fosse, infatti, non si tratterebbe di scienza, la quale procede per “tentativi ed errori”, cioè falsificando ipotesi precedenti in merito a problemi in cui inciampiamo e che tentiamo di risolvere mediante nuove teorie, come insegna la metodologia epistemologica fallibilistica di matrice popperiana.
di Carlo Marsonet

La produzione scientifica inerente ai temi del populismo e della democrazia è sempre più copiosa. Da un lato è certamente un bene, giacché la ricerca non arriva mai a una conclusione, a una verità definitiva. Se così fosse, infatti, non si tratterebbe di scienza, la quale procede per “tentativi ed errori”, cioè falsificando ipotesi precedenti in merito a problemi in cui inciampiamo e che tentiamo di risolvere mediante nuove teorie, come insegna la metodologia epistemologica fallibilistica di matrice popperiana. D’altro canto, però, per quanto attiene alle scienze sociali, il dibattito scientifico si muove sempre in un solco tracciato da un sovrappiù di scivolosità. La questione, allora, sta nel cercare di accordarsi, per quanto è possibile, sull’utilizzo di concetti comunemente impiegati, come appunto quelli di populismo e democrazia, posto che la Wertfreiheit di weberiana memoria risente quasi necessariamente dei variegati riferimenti teorici che si sedimentano in ciascuno studioso.

In un libro recente, Chantal Mouffe, docente di “Teoria politica” presso l’Università di Westminster, cerca di articolare un’idea di populismo che si situi a sinistra e vada a vivificare una democrazia che, a detta della politologa belga, è ormai sempre più “postdemocratica”, cioè svuotata dall’interno a causa di una presunta egemonia neoliberale che la sta dissanguando e depredando dei suoi principi cardine, l’uguaglianza e la sovranità popolare. Per un populismo di sinistra, tradotto in Italia per l’editore Laterza a fine 2018, si muove all’interno del percorso di ricerca sul populismo tracciato da Ernesto Laclau, marito della studiosa, e culminato con un importante volume per gli studiosi del fenomeno, ovvero La ragione populista, anch’esso tradotto nel nostro Paese da Laterza nel 2008.

Mouffe sostiene che la democrazia contemporanea ha smarrito la sua essenza per via della sempre maggiore riduzione del momento “politico” a vantaggio del primato della dimensione economica. La classica divisione tra destra e sinistra, allora, non sarebbe più saliente giacché imperniata attorno alla comune accettazione del capitalismo, e poiché non in grado di cogliere nuove domande di chi lotta contro le molteplici forme di subordinazione. Tuttavia, tale distinzione le tornerà nuovamente utile nel prosieguo dell’agile volumetto, giacché in seguito scevera tra un populismo di destra, mirante a restaurare la sovranità di una comunità nazionale – intesa più o meno come ethnos, dunque tendenzialmente escludente nei confronti di immigrati e così via –, e un populismo di sinistra, considerato al contrario come “buono”. Si tratta, a detta dell’autrice, di risvegliare e, ancor meglio, di andare a rispondere alle domande disattese provenienti dal basso costruendo il “popolo”.  Sulla base delle differenti domande di equivalenza provenienti da tutti i dominati dall’egemonia oligarchica, e non più riconducibili alla classica divisione tra classi sociali, il “populismo di sinistra”, inteso come «strategia discorsiva per la costruzione di una frontiera politica, che opera attraverso la divisione della società in due campi e chiama alla mobilitazione “i derelitti”, chi è sfavorito, contro “chi è al potere”», è quella forza potenziale che può andare a ripristinare una democrazia “giusta”.

Tale analisi, come pare evidente, risente dell’impianto socialisteggiante della politologa, che, va detto, non fa mistero delle sue posizioni ideologiche. Tuttavia, se la democrazia deve essere ridotta, come l’autrice fa capire, a eguaglianza più o meno sostanziale dei cittadini e alla concreta ed effettiva sovranità del popolo, allora alcune perplessità non può che destarle. Infatti, se il regime politico di cui si sta parlando si riduce o, meglio, si ampia a tal punto da essere visto come realizzazione di alcuni (quanti e quali?) contenuti socioeconomici, è perlomeno dubbio si possa parla di liberaldemocrazia. Infatti, più si ampia il raggio di intervento del dispositivo statale, maggiore sarà la riduzione di libertà esperita dagli individui, intendendo con ciò non la libertà vista alla stregua di potere e diritti detenuti, per cui si è liberi nel momento in cui si appiattiscono (o si azzerano?) le diseguaglianze, bensì la libertà considerata come assenza di impedimenti esterni. La democrazia, in altre parole, non può essere ridotta ad “egualitarismo” e questo, come scrisse bene Raymond Aron, «non perviene all’eguaglianza ma alla tirannia». Tra l’altro, come scrisse magistralmente Edmund Burke nelle Riflessioni sulla rivoluzione francese, «quelli che cercano di livellare l’ordine sociale non raggiungono mai la perfetta uguaglianza». D’altronde, Tocqueville aveva visto come la stessa democrazia, se intesa in senso forte e letterale, non faceva che instillare la bramosia per l’egualitarismo e, dunque, un’eguaglianza sempre più forte e più perfetta. Come si può leggere ne La democrazia in America, «vi è infatti una passione maschia e legittima per l’eguaglianza che spinge gli individui a voler essere tutti egualmente forti e stimati. Questa passione tende ad elevare i piccoli al rango dei grandi. Ma nel cuore umano si può trovare anche un gusto depravato per l’eguaglianza che porta i deboli a voler degradare i forti al loro livello, e che riduce gli uomini a preferire l’eguaglianza nella schiavitù alla diseguaglianza nella libertà. […] la libertà non è l’oggetto principale e continuo del loro desiderio; ciò che amano d’un amore eterno è l’eguaglianza. Essi si slanciano verso la libertà con rapidi impulsi e sforzi improvvisi, ma, se falliscono lo scopo, finiscono per rassegnarsi. Nulla, però, potrebbe soddisfarli senza l’eguaglianza e preferirebbero morire piuttosto che perderla». E se la democrazia è una realizzazione umana provvidenzialistica, nondimeno, l’aristocratico francese concludeva la stessa opera asserendo che «dipende da loro [le nazioni moderne] che l’uguaglianza le porti alla schiavitù o alla libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità o alla miseria».

E allora il problema sta nel capire cosa effettivamente è – e pertanto cosa può dare – una democrazia liberale realisticamente intesa, posto che essa non è – e non può essere, d’altronde, come Constant, tra gli altri, ha lasciato detto in eredità – una «demolatria», ovvero quella democrazia letterale per cui un soggetto collettivo enorme (e indistinto) si raduna e decide su qualsivoglia tematica, con la presunzione, tra l’altro, che abbia, oltre alle possibilità in termini di tempo e alle capacità di riunirsi in un luogo (magari virtuale), anche le conoscenze per farlo. Ancora Aron faceva notare come «le istituzioni della democrazia liberale […] si definiscono meno per la sovranità del popolo o il suffragio universale […] che per l’organizzazione d’una competizione nutrita da passioni pronte ad esplodere». Soprattutto, siamo sicuri che il momento politico, interpretato come onnipervasività delle decisioni collettive, sia il necessario elemento o, magari, il coronamento finale di una democrazia che si definisce liberale? Sartori con la giusta dose di mordacia affermò che «la democrazia senza il liberalismo nasce morta», in quanto una “democrazia dei moderni” prima di tutto si prefigge di disperdere il potere, di evitarne concentrazioni potenzialmente esiziali per la libertà individuale, la quale è, prima di ogni altra cosa, come lo stesso politologo fiorentino ammise, assenza di coercizione. Al contrario, se la democrazia va riempiendosi di contenuti sostanziali e fornisce sempre più mezzi per aumentare la “libertà di”, l’autonomia individuale, la “libertà dei moderni” va dissolvendosi. In quest’ottica, la democrazia diventa strumento di servilismo, i diritti sostanziali concessi dallo stato diventano pretese valide da qui all’eternità, e ciò che si va creando è quella che Kenneth Minogue definì «mente servile», ovvero «la disponibilità ad accettare direttive esterne in cambio della rimozione dell’onere di esercitare una serie di virtù come la parsimonia, l’autocontrollo, la prudenza e la stessa civiltà». L’individuo smarrisce il senso di comunità e diventa monade amorfa e priva di socialità prepolitica, il cittadino si fa spaesato e trova la sua ragion d’essere nella comunità statuale (priva di istituzioni e poteri intermediari) che gli trasmette senso di appartenenza e sicurezza. Pertanto, risulta perlomeno dubbia l’affermazione di Mouffe secondo cui il liberalismo sarebbe scevro della capacità di trasmettere senso di comunità, incapace di veicolare quel caldo sentimento di legami sociali profondi. Tuttavia, Hayek, Nisbet, Ortega y Gasset, Röpke, solo per citarne alcuni, sono tutti autori di matrice liberale – anche se di differente declinazione – che hanno posto al centro della loro riflessione anche il tema del liberalismo come teoria impregnata di spirito comunitario, a patto che, come mostrato ad esempio da Hayek in Individualismo: quello vero e quello falso, l’individualismo posto alla sua radice sia correttamente inteso e messo in pratica.

Per concludere, non si può non citare ancora una volta Sartori, allorché scrisse che «una democrazia mal capita […] è una democrazia mal messa». Come ammonì Isaiah Berlin nella celebre prolusione al suo corso tenuta a Oxford nel 1958 – Two concepts of liberty – non dimentichiamo che il regime democratico, se erroneamente considerato, «può anche annientare gli individui con altrettanta spietatezza di qualsiasi dominatore precedente». Si tratta solo, si fa per dire, di non desiderare da esso più di quanto concretamente può dare.

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