di Davide Ragnolini
Dall’antichità ad oggi, l’unione dei singoli individui politicamente associati tra loro è stata rappresentata nel pensiero politico occidentale con la portentosa immagine di un unico ‘magnus homo’. Già Aristotele osservava che gli uomini «quando si raccolgono insieme, in massa, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti» (Pol. III, 11, 1281b).
di Davide Ragnolini

Dall’antichità ad oggi, l’unione dei singoli individui politicamente associati tra loro è stata rappresentata nel pensiero politico occidentale con la portentosa immagine di un unico ‘magnus homo’. Già Aristotele osservava che gli uomini «quando si raccolgono insieme, in massa, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti» (Pol. III, 11, 1281b). Piuttosto curiosamente, soltanto negli ultimi due secoli, tuttavia, i diversi Stati e comunità politiche, ovvero i ‘magni homines’, sono stati rappresentati nei loro reciproci rapporti in modo analogo all’associazione dei singoli individui.

Tematizzata quasi un secolo fa, nel 1917, in un seminale articolo di un professore di diritto internazionale, Edwin De Witt Dickinson – articolo che Carl Schmitt non mancò di annotare nel suo Der Nomos der Erde – l’analogia tra persone e Stati sarebbe diventata uno degli ‘strumenti di lavoro’ disciplinari, per così dire, delle Relazioni Internazionali del XX e XXI secolo. Se la cosiddetta ‘English School’ (1958-85) avrebbe reso popolare, almeno tra gli studiosi internazionalisti, la nozione di «domestic analogy», ovvero di «analogia domestica», è al lavoro di Hideimi Suganami (nella foto, a sinistra), apparso esattamente trent’anni fa, che dobbiamo il primo sistematico tentativo di ricostruzione di questo modello euristico per l’interpretazione dei rapporti tra Stati.

Ma il dibattito attorno a un ipotetico programma di ‘contrattualismo’ tra gli Stati, in analogia con quello tra singoli individui, è diventato ormai un tema imponente nell’opinione pubblica corrente: scavalca la torre d’avorio degli studi internazionalistici, anzi ne ha rotto ormai le ‘pareti’ disciplinari, esonda quotidianamente nella cronaca giornalistica sui colloqui, disaccordi e contrattazioni dei Paesi europei nelle questioni più sensibili per la vita dei singoli Stati (equilibrio dei conti pubblici, uniformità normative, politiche macroeconomiche, ecc.).

Lo studio di Suganami, a suo tempo, si collocava in un periodo cruciale della storia contemporanea occidentale. Nella seconda metà degli anni ‘80 il diritto internazionale aveva una natura decentralizzata, l’unità politica del mondo si presentava frammentata in due blocchi geopolitici, e di fronte a questi il realismo – come osservava Suganami – si configurava come la principale reazione intellettuale all’apparente irrealizzabilità di una riforma della governance mondiale.

L’analogia domestica, per contro, fu intesa da Suganami come un’attitudine liberatoria rispetto al passivo atteggiamento di immobilismo realista, e al contempo una proposta normativa in grado di concepire la transizione – riportando il suo specifico gergo – dal ‘parrocchialismo’ nazionale e statocentrico dell’ordine mondiale a una struttura più universalista. Era possibile, in altri termini, immaginare una trasposizione di quelle istituzioni giuridiche e politiche domestiche, che operano cioè a livello intrastatale, sul piano finalmente internazionale? The Domestic Analogy and World Order Proposal di Suganami è stata una proposta teorica non banale, e non scevra di criticismo, orientata verso la possibilità di articolare simili piani di riforma intellettuale (prima ancora che politica), e al contempo una rassegna dei diversi precedenti teorici di quest’ambiziosa idea (da Saint-Simon a William Ladd, da James Lorimer a Johann Bluntschli).

Non scevra di criticismo, appunto. Perché la stessa idea di ‘ordine mondiale’, e il valore normativo annesso a questo termine, sono stati interpretati, non di rado, come il mero riflesso ideologico di una posizione di preminenza di un determinato Paese sugli altri: un vero e proprio congelamento della mappa geopolitica a vantaggio di quegli Stati che più beneficiano dallo status quo. Inoltre, progetti davvero universali, che non contemplino cioè dispositivi di esclusione/inclusione tra i diversi attori, come osservava Suganami, sono raramente esisti nella storia del pensiero politico internazionalistico.

Un ulteriore elemento di difficoltà, ancora, è dato dalla consuetudine da parte dei diversi teorici di servirsi di modelli costituzionali domestici, storicamente e geograficamente determinati, per programmi di riforma internazionale. E di tale uso strumentale dell’analogia domestica, gli esempi storici abbondano: dal riferimento di Schücking, ancora agli inizi del XX secolo, al modello di confederazione tedesca del 1815, al riferimento di Taft ad una corte suprema internazionale analoga a quella statunitense, o ancora dal progetto pan-americano di Wilson ispirato alla stessa costituzione degli Stati Uniti, fino alle proposte di Zimmern e Smuts di una lega modellata sul sistema di conferenza dell’impero britannico.

La stessa idea di federalismo europeo non è sfuggita ad un uso strumentale dell’analogia domestica: Jean Monnet, tra gli altri padri fondatori del regionalismo europeo, si riferì all’idea di Stati Uniti d’Europa, associati cioè tra loro in modo analogo all’esperienza statunitense, per concepire una forma di mercato comune nel Vecchio Continente; la fiducia nel successo dell’integrazione europea, osservava Suganami circa trent’anni fa, dipendeva in larga misura dagli approcci neo-funzionalisti basati su una sopravvalutazione del federalismo americano.

La fortuna dell’idea di analogia domestica, e della sua applicazione ai piani di riforma della governance mondiale, è stata fino al 1989 alterna, ma la sua rilevanza è tangibile ancora oggi nei numerosi appelli, in particolare di indirizzo liberale, per una struttura più omogenea e centralizzata della governance mondiale. Nella parabola tracciata da Suganami, a seguito della Seconda guerra mondiale si sarebbe assistito ad almeno tre fasi in cui il ricorso a questa idea analogica tra governo domestico e governo internazionale venne impiegata per finalità intellettuali tra loro diverse.

Una prima fase (dal 1945-60) in cui i piani per un ‘world state’ erano concepiti soltanto per differentiam, e in polemica, con il bipolarismo esistente; una seconda fase (anni ’60-’70) in cui la crescente interdipendenza economica favorì visioni internazionaliste affini al modello dell’analogia domestica; infine, una terza in cui, a partire dagli anni ’70, l’idea stessa di analogia domestica fu oggetto della critica realista, o per dirla con Suganami, di quella ‘scuola diplomatica’ che rifiutò l’introduzione di istituzioni domestiche (come quelle dotate di potere giudiziario, esecutivo e legislativo) sul piano internazionale, e adottò un approccio conservativo verso il presente sistema internazionale, statocentrico e decentralizzato.

È forse proprio da questo confronto teorico ingaggiato da Suganami con la ‘scuola diplomatica’ (in parte su ispirazione di Lassa Oppenheim) che deve riprendere una rilettura di questo lavoro, quindi un ripensamento del problema dell’analogia domestica dal 1989 ad oggi. Molte delle questioni affrontate dalla politica e dall’opinione pubblica hanno oggi una natura ‘esterna’, con cerchi concentrici che abbracciano insiemi diversi di problemi politici sovranazionali e internazionali (l’Unione Europea, il confronto con il protezionismo americano, e l’ascesa di Pechino sul mercato mondiale).

E molte delle reazioni a questa congerie di problemi che travalicano la sfera della politica domestica, e verso gli strumenti della politica sovranazionale, assumono oggi una forma analoga a quell’«agnosticismo istituzionale» additato da Richard Falk e dallo stesso Suganami. Dopo una fase di ottimismo unipolare e di fiducia nell’ingegneria istituzionale liberale che seguì la caduta del Muro, in molti registrano ormai un processo di ‘deglobalizzazione’ in atto, per certi aspetti agli antipodi degli ideali che ispiravano il lavoro di Suganami e la ripresa dell’analogia domestica. Ma un altro ostacolo ancora, linguistico e ideologico, sembra rendere apparentemente obsoleto il lavoro di Suganami.

Un’altra narrazione, infatti, si è imposta nel dibattito corrente, per certi aspetti come contraltare a quello sulla ‘de-globalizzazione’. Le attuali difficoltà incontrate nei processi di integrazione politica sovranazionale, e di intesa diplomatica internazionale, sono spesso interpretare come un momento storico soltanto incidentale: l’«agnosticismo istituzionale» è caricaturalmente ridotto in varia misura a populismo, regressione storica, ritorno dell’autoritarismo politico; oppure, ancora, quando non si possa mobilitare la categoria di nazionalismo, immediato è il ricorso polemico a quella di ‘sovranismo’.

È in questo riflesso pavloviano di contrazione dell’alfabetizzazione politica, in cui la ‘complessificazione’ del mondo cede il posto alla semplificazione analitica e morale della stampa e dell’opinione pubblica, che l’opera di Suganami può porsi oggi come antidoto intellettuale: il comportamento dei ‘magni homines’, degli Stati, è ancora al centro della scena internazionale e della storia contemporanea.

Certo, rispetto ai termini di confronto di Suganami, rappresentati da categorie come quelle di ‘realismo’, ‘scuola diplomatica’, statocentrismo e sistema vestfaliano discusse nel suo lavoro, l’impoverimento del linguaggio politico può sembrare oggi irreversibile: è tornando alla teoria internazionalistica, tuttavia, che si possono attingere nuove risorse per ripensare il presente, e il linguaggio con cui descriverlo.

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