di Carlo Marsonet
Che sia tempo di unità o divisioni, bisogna stare certi che vi sono argomenti o temi che, in qualsiasi caso, verranno affrontati dalla maggior parte delle persone (e degli studiosi, pure) allo stesso pervicace modo: negativamente. Il liberismo, che sia “paleo” o “neo”, è sempre “selvaggio” o “predatorio”, e rientra pertanto in questa precisa categoria. È una parola che nasconde tutto e non dice nulla. È il classico caso di termine passe-partout o catch-all,
di Carlo Marsonet

Che sia tempo di unità o divisioni, bisogna stare certi che vi sono argomenti o temi che, in qualsiasi caso, verranno affrontati dalla maggior parte delle persone (e degli studiosi, pure) allo stesso pervicace modo: negativamente. Il liberismo, che sia “paleo” o “neo”, è sempre “selvaggio” o “predatorio”, e rientra pertanto in questa precisa categoria. È una parola che nasconde tutto e non dice nulla. È il classico caso di termine passe-partout o catch-all, cioè a dire, in buona sostanza, una parola – più che un vero concetto, per come viene impiegato – che denota una prospettiva, da parte dei suoi utilizzatori, che le è profondamente ostile e, quindi, non risulta affatto scientificamente valida e spendibile.

A proposito di un’altra parola che sconta il prezzo di un uso talvolta fuorviante e traviato, “democrazia”, Giovanni Sartori ricordava – in Democrazia e definizioni – che «ora una cosa è riassumere la nostra civiltà etico-politica nello stenogramma “democrazia”, e un’altra è restare abbacinati dal vocabolo. Abbreviare è una cosa, semplificare un’altra. Non è la brevità delle formule semplicistiche che le rende erronee: è il fatto che dietro a quella laconicità non c’è niente, c’è il vuoto. E, nel nostro caso, c’è la cancellazione di duemila e cinquecento anni di prove ed errori, di innovazioni e di conservazioni e di aggiunzioni. Purtroppo dall’abbreviazione come espediente di comodo all’abbreviazione come fatto di povertà mentale e peccato intellettivo, il passo è breve. E perciò, se non vogliamo vendere la nostra primogenitura per un piatto di lenticchie, bisogna avere la pazienza di tornare a colmare i vuoti: vale a dire di rimettere in esplicito tutto ciò che – nel dire soltanto democrazia – non è detto ma solo sottointeso». Il corsivo, inserito da chi scrive, sottolinea una proprietà più o meno comune ai vocaboli “neoliberismo” e “democrazia”: dietro di essi, per come vengono utilizzati, c’è aria, o fumo, a seconda dei casi.

Nel volume uscito nel lontano 1957 – per inciso: un classico da leggere e rileggere, soprattutto in tempi di confusione mentale e concettuale circa le basi di una comunità politica, come nel nostro caso il termine-concetto di democrazia – il politologo e teorico politico fiorentino ammoniva dal “perfezionismo democratico”, ovvero l’idea ominosa ed esiziale «di reclamare una democrazia sempre più pura e più perfetta di quella che c’è», di scambiare una democrazia in senso descrittivo a favore di una democrazia in senso prescrittivo – posto che essa si trova naturalmente e inevitabilmente sull’eterno crinale che separa l’essere dal dover essere. Se seguiamo, infatti, la democrazia in senso etimologico, certamente democrazia sta a significare “potere popolare”, «ma – come osservava Sartori – temo che questo sia un modo per elaborare mirabili democrazie in biblioteca».

Al termine “neoliberismo” è andata anche peggio, non solo, ma anche, e soprattutto in Italia. Lo racconta Alberto Mingardi, storico delle dottrine politiche e direttore dell’Istituto Bruno Leoni, in un saggio che non può essere ridotto a semplice opera divulgativa. Basti vedere la mole (qualitativa, non semplicemente quantitativa) di autori e opere citate, nonché di dati riportati. In La verità, vi prego, sul neoliberismo (Marsilio 2019, 20 €, pp. 398), in sostanza, l’Autore si pone (tra i pochi, pochissimi) in un’ottica favorevole alla libertà individuale e, quindi, al mercato e alla libera concorrenza. Come riporta Mingardi, il neoliberismo viene considerato dai più come il capro espiatorio per qualsiasi tipo di calamità o problema sociale (cita, tra gli altri, volumi dal titolo piuttosto bizzarro come Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neoliberismo, Il neoliberismo che sterminò la mia generazione e, financo, Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista). In buona misura, laddove un nesso causale non sia chiaro, poiché la realtà rimane comunque complessa, c’è sempre bisogno di trovare un responsabile a cui additare ogni nefandezza. E, se questo responsabile non ha nemmeno un corpo, una faccia e una voce con cui rispondere, ciò risulta assai più facile proprio per il fatto che da esso non vi sarà alcuna replica. «Nella loro forma mentis [dei nemici del neoliberismo] c’è poco spazio per l’amaro pensiero che le cose, ogni tanto, semplicemente accadono» (corsivo dell’Autore). Ma, come sottolinea Mingardi, già Karl Popper ne La società aperta e i suoi nemici aveva parlato della “teoria cospiratoria della società”: l’idea semplice e quindi avvenente «che ogni cambiamento sociale debba essere l’esito di una deliberata decisione politica è in parte un auspicio, in parte una convinzione profonda che li porta a cercare una trama anche dove non ce ne è nessuna. È l’erronea teoria che, qualunque cosa avvenga nella società – specialmente avvenimenti come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie, che la gente di solito detesta – è il risultato di diretti interventi di alcuni individui e gruppi potenti». «Del resto – scrive lo storico delle dottrine politiche – non è delle parole giuste che si sente il bisogno» e di concetti chiari, aggiungiamo noi, «ma solo di capri espiatori» al fine di spiegare fenomeni complessi, articolati ed eterogenei nella maniera più comprensibile, linda e rassicurante possibile.

La libertà, si sa, è difficile da conquistare, ma ancor più arduo è tutelarla, difenderla. E, non a caso, il liberalismo – o “liberalismo 1.0”, come lo chiama Mingardi per stare al gioco dei suoi detrattori – nasce proprio, pur poi nelle sue diverse diramazioni, come filosofia politica volta al contenimento del potere politico. In teoria, come ricorda l’Autore, sarebbe ancora così, se non fosse che in Italia celebre è la querelle tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi che portò, diciamo così, alla scissione tra liberismo, focalizzato sulla libertà economica, e liberalismo, che, al contrario, pone enfasi sulla vera libertà, quella dello spirito. Come obiettava Einaudi, tuttavia, la libertà politica assai difficilmente può fare a meno della libertà economica. Dopo tutto, come scrisse Hayek ne La via della schiavitù, «l’autorità che dirige l’intera attività economica […] controllerebbe l’allocazione di mezzi limitati per tutti i nostri fini. E chiunque controlli l’intera attività economica controlla i mezzi per tutti i nostri fini e deve quindi decidere quali di questi fini devono essere soddisfatti e quali no». Fine della libertà, insomma. Ma c’è di più. Infatti, il pericolo non viene solamente dalla conculcazione della libertà in ambito politico ed economico. Anche in ambito giuridico, nella fattispecie con una legislazione sempre più capillare ed elefantiaca – una «indigestione di norme», per dirla con Bruno Leoni – si lede la libertà, la quale, con le parole del filosofo del diritto autore di Freedom and the Law, «non è solo un concetto economico o politico, ma anche, e forse soprattutto, un concetto giuridico».

Tornando al libro di Mingardi, l’imputato numero uno, il sicario del neoliberismo non può che essere il mercato, e tutti i suoi adepti. Poco conta che questi siano una sparuta minoranza di persone, che la Mont Pèlerin Society fondata da Hayek nel 1947 non abbia il potere, né la volontà, di dirigere il mondo, che le università e i centri culturali siano quasi totalmente sprovvisti di studiosi liberali. Eppure, non si tratterebbe né di idolatrarlo né di scomunicarlo con una fatwa ideologica. «Il mercato – scrive Mingardi – è una specie di testo da decifrare: ciascuno cerca di leggere l’insieme di azioni e decisioni degli altri e prova così a regolarsi per le proprie. È un esercizio di traduzione continuo, e diversi traduttori possono trarne indicazioni differenti. La varietà delle interpretazioni arricchisce la nostra comprensione del testo, e proprio per questo i suoi lettori sono e maggiore è l’opportunità di imparare qualcosa». Insomma, altro non è che un processo il quale, mediante indici segnaletici quali sono i prezzi, orienta l’allocazione delle risorse in maniera più razionale (e meno lesivo per la libertà) di altri strumenti utilizzabili. In una realtà complessa, esso, soprattutto, fa sì che vi sia cooperazione sociale tra individui con bisogni, necessità e capacità differenti. Ma il punto è anche un altro. Infatti, non si dovrebbero mai dimenticare due presupposti fondamentali che riguardano la politica e l’economia, ma, più in generale, la vita sociale dell’uomo: l’ignoranza e la fallibilità. In sostanza, nessuno è in grado di accentrare in un’unica mente tutti i dati esistenti e le informazioni circa le diverse situazioni, che tendono a mutare inevitabilmente. Non tanto le conoscenze scientifiche in senso stretto, ma più ancora, come scrisse Hayek, quelle «circostanze particolari di tempo e di luogo» di cui può fruire solamente l’individuo a livello locale e periferico. Dunque l’ignoranza. Inoltre, l’uomo è anche caratterizzato dalla fallibilità, ovvero la tendenza a commettere errori nel perseguire un obiettivo di qualsiasi tipo, proprio perché non dispone mai di tutte le informazioni necessarie e le conseguenze inintenzionali dell’agire umano sono nell’ordine delle cose. Secondo molti, però, non è così. Infatti, e Mingardi fa degli esempi a tal proposito, vi è che ritiene che lo stato, ad esempio, sia capace di creare ricchezza, progresso e innovazione come nessun altro. Ma lo stato è composto di uomini, ignoranti e fallibili, come tutti. E dunque non è forse questa una mistificazione? Sul punto l’Autore ricorda un pensiero di Vilfredo Pareto: «Già centovent’anni fa, Vilfredo Pareto notava che certe idee dei socialisti sembravano “procedere più dalla fede che dal ragionamento”. Se “si leggono attentamente i loro scritti, ci si avvede però che, più o meno esplicitamente, ammettono [l’esistenza di] una certa entità metafisica che chiamano “Stato”, che possiede tutto il potere, tutta la scienza, tutta la virtù”». «Il monopolista della ragione», conclude salacemente Mingardi. Se fosse così, insomma, resterebbe ben poco spazio per la nostra libertà.

Ritenere che esista, dunque, qualcuno o qualcosa in grado di raddrizzare il legno storto di cui è fatto l’uomo, e quindi poter tutto pianificare a tavolino, come se la realtà poliedrica si prestasse a un tale puerile gioco, non solo è miope ma non fa i conti con quello scetticismo che deve guidare un uomo naturalmente imperfetto. E che, contrariamente a quanto si pensa, accompagna proprio il procedimento di “esplorazione dell’ignoto e correzione degli errori” tipico del processo di mercato.

Carlo Marsonet, PhD candidate in “Politics: History, Theory, Science”, Luiss Guido Carli, Roma

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