di Alessandro Campi

1580563_renzi-800x445_thumb_bigMatteo is back. Il suo lungo limbo è terminato. Sconfitto al referendum, costretto a lasciare il governo, dimessosi dalla guida del suo partito, entrato in una sorta di cono d’ombra mediatico per lui assolutamente innaturale, Renzi ha ripreso il controllo del Pd grazie ad un ampio – e largamente previsto – consenso tra iscritti e simpatizzanti. Da oggi comincia una partita politica nuova, da seguire con attenzione, anche perché potrebbe portarci dritti alle urne con anticipo.

Si discuterà per qualche giorno se quasi due milioni di votanti sia un buon risultato dal punto di vista della partecipazione. In realtà, si temeva un afflusso più basso, che avrebbe fatto gridare al fallimento. Nelle primarie del 2007 che incoronarono Veltroni segretario del Pd votarono tre milioni e mezzo di cittadini. In quelle dell’ottobre 2009 vinte da Bersani alle urne andarono in poco più di tre milioni. Nel dicembre 2013, Renzi trionfante, furono due milioni e ottocentomila. Il trend è dunque discendente. Forse bisognerà prendere atto che questo strumento di democrazia dal basso, tanto enfatizzato a sinistra per la sua capacità di innovare e moralizzare la politica, non accende più le passioni di un tempo, ammesso che sia davvero servito a rigenerare la nostra classe politica. Ma con tutto il rispetto per Grillo, che ieri ha contrapposto l’obsoleta democrazia di carta della sinistra a quella digitale e post-moderna dei grillini, parliamo pur sempre di grandi numeri e di persone che si mettono in coda per esprimere democraticamente un’idea o una preferenza, non di sparuti elettori virtuali via computer che fanno politica senza uscire di casa.

Come si sa, Renzi aveva impresso a queste primarie un andamento lento e ovattato, che ha finito per ridurne la portata politico-mediatica. Troppo distante il divario potenziale tra i contendenti – che pure si sono dati battaglia presentando programmi assai diversi in materia di alleanze, di lavoro, di scuola e di gestione organizzativa del partito – per farne qualcosa di diverso da ciò che sono state: la certificazione dei rapporti di forza che esistono all’interno del Pd dopo che la sinistra bersaniana ha optato per la scissione e dopo che tutte le altre componenti interne (da quella guidata da Franceschini agli ex giovani turchi di Orfini) hanno trovato un accomodamento con la maggioranza renziana. Adesso il Pd è veramente il partito di Renzi, come mostrerà la composizione dell’assemblea nazionale.

Ma come intende utilizzare la sua forza il neo-segretario e come si muoverà? Lo capiremo presto dal modo con cui, ad esempio, affronterà il nodo Alitalia. Il governo, dal premier Gentiloni al ministro Calenda, esclude qualunque forma di salvataggio pubblico, mentre Renzi (come già fece Berlusconi nel 2008) sembrerebbe intenzionato a giocare la carta dell’interesse nazionale da tutelare e dei posti di lavoro da salvaguardare. Ne potrebbe nascere un contrasto interno al Pd che, sommandosi ai malumori già manifestati dai renziani nei confronti della politica economica di Padoan, potrebbe in effetti mettere in discussione la tenuta dell’esecutivo.

Ma Renzi è realmente intenzionato ad andare al voto anticipato, magari il prossimo ottobre, in prossimità di quello tedesco? Ci sono serie ragioni tattiche che lo spingono in questa direzione. Bruciare sul tempo tutti i suoi avversari, che non sembrano ancora organizzativamente pronti allo scontro elettorale. Evitare di impegnare il suo partito su una legge di stabilità “lacrime e sangue” che peserebbe negativamente sulla campagna elettorale. Togliere ai grillini l’effetto trascinamento della loro probabile vittoria alle regionali siciliane del prossimo novembre. Disinnescare il referendum leghista sull’autonomia del lombardo-veneto previsto proprio per l’autunno.

C’è tuttavia il nodo della legge elettorale, che il Capo dello Stato ha chiesto ufficialmente ai partiti di modificare. Il realismo dovrebbe far temere anche a Renzi l’ingovernabilità che rischia di scaturire da un voto col sistema proporzionale. Qualche tentativo per trovare un accordo verrà certamente fatto, ma bisogna prepararsi al peggio. Il che vuol dire ragionare sulle possibili alleanze di governo: grande coalizione con Berlusconi o accordo con la galassia movimentista e post-comunista di Bersani-Pisapia? Su questa scelta Renzi si gioca buona parte del suo progetto politico.

Ma questo attiene alle scelte da fare nelle prossime settimane. Più nell’immediato, Renzi, ora che è tornato ufficialmente nel gioco politico, deve prendere atto che il suo rapporto con l’opinione pubblica è cambiato. L’entusiasmo, la simpatia e le aperture di credito che ne hanno accompagnato la fulminea ascesa politica sono un ricordo. Il colpo del 4 dicembre, con la bocciatura del suo referendum, ha certificato il cambio repentino di clima collettivo che era avvenuto nel frattempo, con milioni di italiani che hanno votato non contro le riforme proposte da Renzi, ma contro Renzi medesimo. Mille giorni di governo, in tempi di turbo-politica, erano bastati a logorarne l’immagine. Il suo carattere fumantino e un certo egotismo avevano fatto il resto. Da neo-segretario forse dovrà cambiare qualcosa nei suoi atteggiamenti e nel suo linguaggio, auspicabilmente meno aggressivi e polemici.

Così come è chiaro che il populismo omeopatico, da Renzi praticato nell’illusione di sottrarre consenso ai grillini e di intercettare il voto degli italiani arrabbiati, non ha funzionato. Il caso francese di Macron dimostra semmai il contrario: vince e convince chi polarizza le posizioni rispetto al proprio avversario, non chi pensa di appropriarsi dei suoi argomenti in forma edulcorata. Avremo dunque un Renzi più europeista e meno agitato da quegli umori anti-casta che alla fine gli si sono rivoltati contro?

* Editoriale apparso su “Il Messaggero” del 1° maggio 2017.

 

 

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