di Emidio Diodato
 
Marco Damilano, Il Presidente, La Nave di Teseo, Milano 2021, pp. 349
Nei primi di settembre del 2011, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dialogò con Gianfranco Pasquino in una calda sala di Palermo, di fronte all’assemblea dei partecipanti al Convegno annuale della Società Italiana di Scienza Politica: ricorrevano i 150 anni dall’unità d’Italia. In prima fila, impeccabile nel suo abito e cravatta, se non ricordo male,
di Emidio Diodato

 

Marco Damilano, Il Presidente, La Nave di Teseo, Milano 2021, pp. 349

Nei primi di settembre del 2011, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dialogò con Gianfranco Pasquino in una calda sala di Palermo, di fronte all’assemblea dei partecipanti al Convegno annuale della Società Italiana di Scienza Politica: ricorrevano i 150 anni dall’unità d’Italia. In prima fila, impeccabile nel suo abito e cravatta, se non ricordo male, c’era il futuro presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Napolitano immediatamente si schermì affermando che l’opera del capo dello Stato è materia di interesse degli storici delle istituzioni politiche. Pasquino saltò sulla sedia, ma come, noi scienziati politici? Poi i due amici e compagni iniziarono a snocciolare contenuti di alto e tagliente rilievo, che i numerosi e pretenziosi astanti, ovviamente di diversa provenienza e destinazione, sia politica che politologia, certamente considerarono non solo di loro interesse ma anche di propria materia di ‘studio’. Benché in molti potessero al tempo vantare ricerche approfondite su tutti gli aspetti dell’agone politico, forse anche sulla frammentazione della classe politica democristiana nel collegio di Campobasso, nessuno aveva fino ad allora preso abbastanza sul serio la politica e la politicità del ruolo di presidente. Eppure parlando di Europa, ma non solo, Napolitano chiarì come il suo ruolo di garante della continuità e della stabilità dello Stato riguardasse da molto tempo anche la fedeltà atlantica ed europea dell’Italia, un tema tutt’altro che di poco conto; anzi, direi di alto contenuto politico oltre che istituzionale: il garante del vincolo esterno.

Ho divorato il libro di Marco Damilano (in basso, nella foto) in un giorno, tra panettone e torrone. Me l’ha donato mia suocera, quindi ne parlo con distacco e in totale libertà. Avevo iniziato nei primi di dicembre il suo podcast Romanzo Quirinale, consigliato da un amico raffinato avvocato, ma mi ero addormentato dopo la prima puntata (solo per colpa mia, sia ben chiaro, o della mia dissimulatrice insonnia). Il telefono di cui dispongo mi ha poi negato la possibilità di riascoltarlo a gratis perché ovviamente la narrazione era proseguita in sottofondo. Mi ero quindi ripromesso di acquistarlo. Ma, oramai, il libro dello ‘spiegone’ di Propaganda live l’ho ricevuto in dono e letto, e credo che il podcast non faccia che ripercorrerne molti passi. Insomma si scelga. Ma forse, e tuttavia, non avrei colto quanto l’autore avesse siffatta consapevolezza, nel cercare il filo del romanzo, di quanta politicità trasudi da quel ruolo istituzionale così sinotticamente definito dalla Carta costituzionale. E non soltanto nei momenti della fisarmonica aperta, ossia quando (come dicono i costituzionalisti) le altre istituzioni sono deboli (in particolare il Parlamento) e quindi il presidente acquisisce prerogative altrimenti silenti. Nulla risuona di complottistico nel romanzo di Damilano (dimenticavo di dire che si tratta di un romanzo, almeno nelle prospettive dell’autore) nella pure ben rappresentata ‘camera ardente’ dei poteri forti repubblicani. Belle sono ad esempio le pagine in cui il direttore de L’Espresso deride il mito dei colpi di Stato orditi dai poteri occulti quirinalizi. Povera sinistra che non ha compreso i pericoli più profondi del populismo ante litteram di Pertini. No, nessun potere oscuro. Il presidente ha potere quando suona i tasti della fisarmonica in sintonia con le pressioni della storia, con i suoi mutamenti, soprattutto quando provengono dalla vita internazionale dello Stato. Come seppe fare, a torto o a ragione, il presidente Cossiga dopo la fine della Guerra fredda.

Giovanni Gronchi è sicuramente un interprete particolare del ruolo di presidente. È ben tratteggiato nel libro quando si descrive la ‘gronchite’ venuta ai dipendenti di Via Veneto, sede dell’Ambasciata americana: “provò a rivendicare la guida della politica estera, ma fu respinto” (p. 48). La storia non lo permetteva. Più efficace fu Napolitano, ricordato dal presidente degli Stati Uniti alla fine del secondo mandato del leader migliorista con un una telefonata resa pubblica da Washington, perché la guida del paese “era stata esercitata dall’inquilino del Quirinale e non di Palazzo Chigi” (p. 49). Lo stesso Mattarella si distinse nel dire no al nome di Paolo Savona nella casella dell’economia, per le sue posizioni anti-euro. Damilano descrive molto bene il clima viziato di Roma in quei giorni. Così come descrive bene altri passaggi della seconda fase repubblicana, benché gli ultimi capitoli siano scritti con minore cura e rigore rispetto ai precedenti che raccontano il Quirinale da Einaudi a Scalfaro. Accurato e appassionato è invece il racconto del dramma dei 101, che portò alla inusuale e forse (non)costituzionale rielezione di Napolitano nel 2013. Qui il romanziere lascia il posto al cronista che, in dialogo con un informatore anonimo, racconta il dramma che ha portato alla morte dell’ultimo partito di massa della storia repubblicana, ossia il Partito democratico.

Insomma come ricorda Pasquino nella sua Prima lezione di scienza politica edita per gli Editori Laterza, citando Harold Lasswell e Abraham Kaplan: “Political science, as an empirical discipline, is the study of the shaping and sharing of power”. Con stile alto e arioso Damilano affronta questioni di cui dovrebbero nutrirsi i cultori della scienza della politica. Sì, così potrebbero contribuire un po’ meglio al lavoro degli storici delle istituzioni, politiche e sociali.

Emidio Diodato, Professore ordinario di Scienza Politica nell’Università per Stranieri di Perugia

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