di Alessandro Campi
La buona notizia è che l’Europa ha un’anima politica, dunque inevitabilmente conflittuale, a dispetto delle opposte e false rappresentazioni che se ne danno. I suoi apologeti la dipingono spesso come un club solidale e irenico, i cui membri, mossi soltanto da nobili intenzioni, agiscono sempre secondo le regole del fair play e seguendo il principio dell’unanimità. I suoi critici la descrivono invece come un mostro freddo abitato da burocrati privi di volontà e prigionieri degli automatismi decisionali che essi stessi hanno colpevolmente creato e che adesso non riescono più a controllare.
di Alessandro Campi

La buona notizia è che l’Europa ha un’anima politica, dunque inevitabilmente conflittuale, a dispetto delle opposte e false rappresentazioni che se ne danno. I suoi apologeti la dipingono spesso come un club solidale e irenico, i cui membri, mossi soltanto da nobili intenzioni, agiscono sempre secondo le regole del fair play e seguendo il principio dell’unanimità. I suoi critici la descrivono invece come un mostro freddo abitato da burocrati privi di volontà e prigionieri degli automatismi decisionali che essi stessi hanno colpevolmente creato e che adesso non riescono più a controllare.

L’impasse sulla nomina del nuovo presidente della Commissione, al posto dell’uscente Jean-Claude Junker, così come le trattative febbrili sulle altre cariche apicali da assegnare (dalla presidenza del Parlamento alla guida della Bce), ci dimostrano invece che l’Unione è, per quanto indebolito agli occhi dei suoi stessi cittadini, un organismo politico a suo modo ancora vitale. E ciò proprio in virtù delle divisioni e dei contrasti – frutto di visioni e interessi inevitabilmente divergenti – che si stanno registrando tra i diversi Paesi e nei diversi Paesi.

Quella in corso tra cene ufficiali e incontri informali, tra sgambetti a mezzo stampa e dichiarazioni fintamente concilianti, è una trattativa inevitabilmente complessa, vista l’importanza della posta in gioco, in cui molto contano anche le capacità negoziali dei singoli leader: impegnati in una partita in cui il tatticismo e il pragmatismo talvolta possono persino compensare la dura prosaicità dei rapporti di forza tra Stati e famiglie politiche.

È una partita in cui, come abbiamo visto in questi giorni, le logiche di appartenenza politica e le solidarietà ideologiche si mischiano inevitabilmente con la difesa dei rispettivi interessi nazionali, sino a determinare alleanze inedite o eccentriche convergenze, peraltro facilmente reversibili e quasi mai definitive. Alla fine si arriverà inevitabilmente ad un compromesso globale, ma sarà appunto il risultato di un percorso politico accidentato fatto di promesse, rinunce e concessioni reciproche.

Tutto ciò può apparire come l’espressione di un modo antico di gestire il potere, secondo logiche spartitorie frutto di accordi e intese, ma è invece l’essenza della politica, a dispetto dei suoi detrattori che ne negano l’utilità sul piano della propaganda mentre ipocritamente ne applicano le logiche in modo persino pedissequo. Peraltro non stupisce il balletto di candidature e veti incrociati cui stiamo assistendo da subito dopo il voto dello scorso 26 maggio. La verità è che la mappa politica continentale è molto cambiata, all’interno dei singoli Stati e nei rapporti tra essi: non ci sono più soluzioni o formule preordinate da riproporre in modo meccanico, e questo ha riaperto fatalmente i giochi tra i diversi attori e reso l’Europa un soggetto politico nuovamente interessante.

Lo dimostra la difficoltà della Merkel a far accettare il pacchetto di nomine che, in una sorta di patto a quattro tra Germania, Francia, Olanda e Spagna, era stato informalmente messo a punto a margine del G20 riunitosi ad Osaka. Da un lato ciò è il segno di un inevitabile appannamento personale, dopo tre lustri di protagonismo sulla scena internazionale. Dall’altro è la conferma che è iniziato un nuovo ciclo storico-politico, caratterizzato da un duplice e irreversibile declino: quello dell’asse franco-tedesco e quello del duopolio socialisti-popolari. L’Europa si è allargata, in tutti i sensi: con la costituzione all’interno del suo spazio di nuove polarità geopolitiche (come nel caso del ‘Gruppo di Visegrad’) e con la comparsa, il radicamento o il rafforzamento di culture e ideologie politiche diverse da quelle storiche o tradizionali (dal nazional-populismo ai Verdi, passando per il neo-centrismo a sfondo personalistico-tecnocratico di Macron). Da qui la necessità di ricercare nuovi equilibri nel governo dell’Europa a venire, rispettosi sia degli interessi dei diversi Paesi sia degli orientamenti sempre più articolati e frammentati degli elettori.

Ma per una notizia buona – le divisioni politiche dell’Europa come paradossale premessa per la sua riforma dopo la crisi di efficienza e legittimità che l’ha afflitta negli ultimi anni – rischia sempre di essercene una cattiva, che riguarda in questo caso noi italiani. Viene infatti da chiedersi, con una punta di preoccupazione e rammarico, se per caso non si stia perdendo la possibilità di inserirci, con un ruolo condizionante, in una partita politica che, nella storia recente dell’Europa, mai era stata tanto incerta, tanto aperta e dunque tanto ricca di opportunità.

Da un lato pesa negativamente l’eccentricità oggettiva della maggioranza giallo-verde che sostiene il governo, che rende difficile trovare convergenze o intese stabili a livello continentale. Dall’altro pesa, come si è visto nelle ultime ore, il fatto che questo esecutivo, oltre ad avere una bizzarra composizione, ha anche una scarsa coesione interna e manca di una voce unitaria. Qual è la posizione effettiva dell’Italia: quella espressa da Conte nelle trattative più o meno riservate che sta faticosamente conducendo con gli altri leader europei o quella che si ricava dalle esternazioni polemiche di Salvini?

Senza contare che è difficile fare accordi, avanzare richieste e sollecitare concessioni per un Paese che come principale obiettivo sembra avere quello di evitare l’apertura nei suoi confronti di una pesante procedura d’infrazione. Il ritiro di questa minaccia è tutto ciò che ci verrà concesso o al quale possiamo aspirare? Parliamo infine di un Paese nel quale maggioranza e opposizione sono talmente impegnati a delegittimarsi (e insultarsi) vicendevolmente – vedi il modo miserevole con cui ci si è divisi sul caso della Sea-Wacht – da non poter nemmeno concepire l’idea che esista un superiore e comune interesse nazionale da far valere in sede europea.

Al momento l’Italia, considerati i suoi ridotti spazi di manovra, sembra aver espresso un potere essenzialmente d’interdizione, non senza efficacia. Contro le proposte della Merkel, che ha scelto di sacrificare Manfred Weber, suo candidato della prima ora, a beneficio del socialista Frans Timmermans nella prospettiva di una maggioranza europea allargata ai Verdi e ai Liberali, si è associata ai malumori interni alla famiglia popolare e ha fatto sponda con il blocco di Visegrad e con la Gran Bretagna. Ciò naturalmente non basta per dare vita ad un’alleanza politica organica, capace di sostenere l’Italia nella sua richiesta d’un Commissario con un’importante delega economica, ma se non altro questa scelta è momentaneamente servita per mettere in difficoltà il progetto, per molti versi anacronistico e velleitario, di un governo oligarchico dell’Unione nuovamente sotto l’egida franco-tedesca.

Macron ieri ha sostenuto polemicamente che l’Europa non può essere ostaggio di piccoli gruppi che si arrogano un potere condizionante che non corrisponde alla loro forza reale. La verità è che il decisionismo da lui invocato non può legittimare il fatto che un piccolo gruppo di Stati continui a dettare le regole cui tutti debbono attenersi. E’ questa la posta in gioco della battaglia in corso in Europa, che si deciderà nelle prossime ore, e che l’Italia deve provare a combattere alla luce del sole forte del suo ruolo storico di Stato fondatore.

 

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