di Davide Lampugnani
È difficile non ricordare le settimane del primo lockdown italiano. Giornate intere chiusi in casa scrutando dalle finestre le strade deserte. Le ambulanze che sfrecciavano con le sirene accese trasportando i contagiati verso gli ospedali. La preoccupazione di non riuscire a trovare neanche i beni più essenziali, come il pane e il latte, ad esempio. Improvvisamente città, regioni e stati si sono dovuti confrontare con una crisi che dal piano sanitario si è rapidamente propagata a tutti gli ambiti della vita di milioni di persone.
di Davide Lampugnani

È difficile non ricordare le settimane del primo lockdown italiano. Giornate intere chiusi in casa scrutando dalle finestre le strade deserte. Le ambulanze che sfrecciavano con le sirene accese trasportando i contagiati verso gli ospedali. La preoccupazione di non riuscire a trovare neanche i beni più essenziali, come il pane e il latte, ad esempio. Improvvisamente città, regioni e stati si sono dovuti confrontare con una crisi che dal piano sanitario si è rapidamente propagata a tutti gli ambiti della vita di milioni di persone. Più di un anno dopo quel lockdown, ancora fatichiamo a dare un senso a questo evento e alle sue possibili conseguenze. Ciononostante ogni giorno da allora non facciamo altro che continuare a moltiplicare le più disparate narrazioni, bramose di interpretare e di spiegarci quanto accaduto.

Proprio in quelle settimane tra la fine di marzo e l’inizio di aprile 2020 sono state scritte le pagine che compongono Il gioco permanente con i limiti. La pandemia, il malinteso dell’universalismo e gli imbrogli della teoria economica (2021), primo testo pubblicato nella collana Koinonìa della casa editrice Ensemble. Sono pagine che, dunque, hanno innanzitutto un valore di testimonianza e di documento rispetto a ciò che è stato vissuto in quei lunghi giorni di lockdown forzato. Pagine che parlano di strade deserte, di negozi chiusi e di ambulanze che corrono a sirene spiegate. Il loro valore, tuttavia, non si limita a questo. Perché il loro autore, Arpad Szakolczai, da molti anni ormai rappresenta una delle voci più autorevoli nell’ambito dello studio dei processi storici e, in particolare, genealogici che hanno dato vita alla modernità occidentale. Dialogando con autori come Max Weber, Eric Voegelin o Michel Foucault, in studi come The genesis of modernity (2003), Sociology, religion and grace (2007) oppure Comedy and the public sphere (2013), Szakolczai ha cercato di mettere in luce non solo la genesi storica della modernità ma anche la paradossalità della sua dinamica, data dall’intreccio tra una permanente liminalità – nella forma di continue crisi e rivoluzioni – e irriducibili punti di stallo sul piano dei paradigmi di pensiero politico, economico e sociale.

Il valore di queste pagine va allora incredibilmente oltre il livello della pura descrizione, perché si presenta come un sapiente intreccio tra la diagnosi del presente e la diagnosi di lungo periodo, come una lettura congiunta tra quanto ci è accaduto e ci sta accadendo durante questa pandemia e quanto ci è accaduto e continua ad accaderci come uomini e donne della modernità. In modo particolare, è possibile individuare una precisa chiave interpretativa che attraversa l’intero testo, facendo così stagliare con chiarezza il vero e proprio bersaglio critico che dal presente si allarga fino ad abbracciare l’intera epoca che lo contiene. Si tratta dell’“universalismo kantiano”, identificato da Szakolczai come la matrice filosofica fondamentale della modernità. Secondo l’autore, infatti, è la filosofia di Kant a costituire la versione più emblematica di quella forma di pensiero fondato su “universali astratti” caratteristica della modernità. È con Kant che la modernità raggiunge il suo culmine intellettuale, strutturandosi attorno a categorie a priori che mirano precisamente a tagliare ogni legame con le radici della concretezza della vita, che per secoli avevano espresso l’essenza stessa degli esseri viventi e del loro rapporto con la natura.

Ciò risulta ancora più evidente andando a considerare uno degli ambiti per eccellenza in cui l’universalismo astratto ha sviluppato i suoi presupposti fino alle conseguenze più disastrose, cioè la teoria economica. In questo caso, sotto accusa sono non soltanto i fondamenti narrativi della moderna economia, come la visione di un “individuo isolato” alla Robinson Crusoe, in competizione continua con tutti gli altri individui per il perseguimento dei propri interessi, oppure come la concezione della natura intesa come intrinsecamente “scarsa” e, di conseguenza, foriera di una lotta incessante per l’accaparramento delle poche risorse disponibili. Sotto accusa sono anche quelle “leggi” che sembrano ormai definire in modo implacabile i meccanismi di funzionamento delle moderne economie di mercato. Szakolczai non esita a parlare di veri e propri “imbrogli”, cioè di inganni, di trucchi; alla stessa maniera in cui un prestigiatore inganna il proprio pubblico con abili movimenti delle mani.

In questo modo, ad esempio, il principio dell’universalizzazione dello scambio arriva a sostenere che tutti dovrebbero poter scambiare tutto con tutti, che ogni bene dovrebbe poter diventare una semplice merce scambiabile con altre merci, che nulla dovrebbe avere valore in sé ma solamente alla luce delle opportunità di scambio che renderebbe possibili. È questo, in fondo, il principio cardine della modernità globalizzata, la forza che spinge sempre più stati nazionali, territori e imprese ad aprirsi alla competizione globale. Eppure, come non considerare, allo stesso tempo, il fatto che in realtà nessun bene concreto può essere semplicemente ridotto ad una semplice merce astratta e interscambiabile? Come non considerare che la storia e il luogo che si intrecciano in un bene concreto sono tutt’altro che irrilevanti nel definire la sua natura e il suo valore? Come non considerare il fatto che esiste una differenza ontologica tra la pèsca colta dall’albero del proprio giardino e la pèsca spedita dal Sudafrica in pieno inverno in ogni angolo del mondo?

Proprio a proposito di pesche, per mostrarci la logica di questi imbrogli, Szakolczai ricorre anche alla sua vita e ai ricordi della sua infanzia in Ungheria. Il nonno possedeva, infatti, un giardino con alberi di pesche che da generazioni coltivava e custodiva. Ogni frutto di questi alberi doveva essere accompagnato nel suo ciclo di vita da un buon giudizio da parte della famiglia: non poteva essere colto troppo presto e non poteva essere lasciato sulla pianta troppo oltre la sua maturazione. Ogni frutto era un dono della natura ma, allo stesso tempo, era anche un bene che richiedeva al nonno e alla sua famiglia la capacità di saper accogliere quel dono. Quando il tempo era giunto, le pesche attendevano solo di essere colte e gustate con riconoscenza. Era un’esperienza quasi sacra. Ricorda, infatti, Szakolczai, con evidente emozione: “solo lui [il nonno] poteva cogliere la pèsca giusta e, quando ne pescava una per darmela, era semplicemente magnifica”.

Ora, questa concretezza racchiusa in una piccola pèsca matura rappresenta la vera posta in gioco per l’uomo della modernità. Una concretezza che costituisce la sola via possibile attraverso cui far riaffiorare una concezione della “vita buona” forse ormai dimenticata. Una vita “ricca”, non tanto perché piena di astratte possibilità illimitate, quanto perché capace di riconoscere l’insostituibilità di ciò che la nutre: dagli affetti che legano a familiari e amici fino alla casa e agli alberi del proprio giardino. Ognuno di questi beni è unico ed è un dono che non può essere reso liberamente interscambiabile con qualsivoglia altro bene.

Proprio in questo senso, allora, l’attuale pandemia rischia di sfociare in un’ulteriore degenerazione della follia moderna. Durante le settimane del lockdown le misure ferree imposte per evitare il contagio sono ricadute dall’alto del loro universalismo su tutto il territorio nazionale. Improvvisamente, camminare per le strade del proprio paese oppure recarsi a fare la spesa nel negozio poco oltre il confine comunale sono diventate attività fuori legge. Tutto ciò in nome di una razionalità astratta che si è immaginata tanto più efficace quanto più capace di prescindere dalla vita concreta delle persone investite. Non solo. Proprio in questo senso, l’attuale pandemia rischia di rendere improvvisamente sostituibile e interscambiabile ciò che invece per sua natura non lo è. Può essere così per la relazione educativa nelle scuole e nelle università, ormai spensieratamente prefigurabile come mediata a lungo termine dalle piattaforme online. Oppure può essere così per la socievolezza quotidiana, confinata e sacrificata in nome di un’ideologica sicurezza individuale e collettiva da preservare ad ogni costo. In questo senso, secondo Szakolczai, questa pandemia potrebbe non essere altro che una nuova occasione per estendere ulteriormente la logica dell’universale astratto a scapito della concretezza della buona vita.

Che fare, dunque? Cosa è possibile nel momento in cui nulla sembra resistere al gioco permanente con i limiti e al meccanismo della sostituzione infinita? Non si tratta certamente di auspicare una sorta di “rivoluzione” o di “innovazione radicale”. Queste ultime, ancora una volta, non farebbero altro che assecondare la corrente della liminalità moderna. Al contrario, suggerisce l’autore, si tratta di tornare proprio alla concretezza della vita, in un duplice senso. In primo luogo, concretezza della vita come apertura agli eventi concreti della storia, i quali sono realizzati da persone concrete in situazioni concrete, e non possono essere ricondotti entro logiche astratte a-priori. Eventi che, di conseguenza, richiedono decisioni concrete, capaci di mediare sensatamente tra l’universale e il darsi della storia. In secondo luogo, concretezza della vita come apertura riconoscente verso ciò che è indistruttibile e, dunque, eterno. Ciò che, proprio per questo motivo, non può che costituire uno scandalo per un’epoca che fa del nuovo la sua unica ragione d’essere.

*Ricercatore in Sociologia generale, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

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