di Alessandro Campi
Raccontare la storia di un uomo: Recep Tayyip Erdogan, leader carismatico e personalità enigmatica. E descrivere i caratteri salienti (in parte innovativi) di un sistema politico: la Turchia odierna, pericolosamente in bilico tra democrazia e autoritarismo, alle prese con un difficile equilibrio tra pluralismo sociale e assolutismo politico.
Non è facile nei lavori di scienza politica tenere insieme le due dimensioni: quella della ricostruzione biografico-psicologica e quella dell’analisi in chiave socio-istituzionale.
di Alessandro Campi

Raccontare la storia di un uomo: Recep Tayyip Erdogan, leader carismatico e personalità enigmatica. E descrivere i caratteri salienti (in parte innovativi) di un sistema politico: la Turchia odierna, pericolosamente in bilico tra democrazia e autoritarismo, alle prese con un difficile equilibrio tra pluralismo sociale e assolutismo politico.

Non è facile nei lavori di scienza politica tenere insieme le due dimensioni: quella della ricostruzione biografico-psicologica e quella dell’analisi in chiave socio-istituzionale. Così come non è frequente nella letteratura politologica contemporanea vedere la prospettiva storico-concettuale conciliarsi con quella empirico-descrittiva. Federico Donelli è riuscito nell’impresa, come si evince dalle pagine del volue che ha appena pubblica (Sovranismo islamico, vedi copertina a lato). Ci ha dunque regalato un lavoro di grande utilità (peraltro agevole e ben scritto) per chiunque voglia comprendere cosa stia accadendo (e per quale complesso di ragioni storiche, politiche e culturali) alla porta orientale dell’Europa.

Per la storia politica turca Erdogan è senz’altro la figura più importante dai tempi di Kemal Atatürk, dal momento che come quest’ultimo
sta incidendo sulla sua struttura profonda, in primis sul piano dell’immaginario collettivo. E proprio nel paragone tra queste due personalità
risiede uno dei tratti di novità, sul piano interpretativo, di questo saggio. È infatti prevalente, in campo pubblicistico ma anche tra gli studiosi, la tendenza a contrapporre in modo meccanico la Turchia laico-secolarista, di simpatie occidentaliste, di cui Mustafa Kemal è stato il padre e l’ispiratore sul piano ideologico, alla Turchia religioso-conservatrice o più semplicemente tradizionalista sul piano del costume e delle consuetudine sociali, alla quale Erdogan ha dato voce risvegliandola da un passato che sembrava sepolto e che invece era stato soltanto dimenticato e forzatamente rimosso. Donelli si distacca da questo cliché semplicistico, sostenendo invece l’idea che nella storia della Turchia post-imperiale (dal 1919 ad oggi) sia possibile rintracciare un filo di continuità, per quanto negativo: la mancanza in quel Paese di una leadership (e dunque di una cultura politica) in senso lato liberale. Ragion per cui il modello politico turco, anche nelle sue fasi formalmente democratiche, ha mantenuto nel tempo una natura eccentrica e anfibia, essendo sempre stato caratterizzato da un tratto fortemente cesaristico-autoritario: “Nella sua storia quasi secolare – scrive per l’appunto Donelli – la Repubblica turca non ha mai avuto un leader liberale in grado di assicurare il pieno rispetto della libertà di espressione e dei diritti delle minoranze politiche, etnolinguistiche e religiose. Al contrario, pilastri e fondamento dell’ordine illiberale turco sono sempre stati lo statalismo, il nazionalismo, il conservatorismo religioso e la protezione di potenti interessi economici”. Ieri come oggi.

La storia politica della Turchia non va dunque interpretata, come si tende a fare, secondo la dialettica secolarismo-confessionalismo, ma guardando ai fattori di continuità, sul piano ideologico e istituzionale, che hanno segnato la vita della Repubblica. Si pensi al nazionalismo, come tratto persistente, da Atatürk ai giorni nostri, della cultura politica turca e ben radicato nei gruppi dirigenti di quel Paese, comprese le componenti cosiddette “laiche”. Si pensi altresì al permanere nella società turca di una “mentalità autoritaria”, anche questa assai diffusa nel mondo politico e riflesso di una tradizione storico-culturale che non ha mai enfatizzato, rispetto al mondo occidentale, i valori della libertà o autonomia individuale.

Si può dunque sostenere (sperando di non forzare troppo il pensiero dell’Autore) che Erdog˘an abbia sviluppato il suo progetto politico, di stampo fondamentalmente carismatico-autocratico, in relativa continuità con quello a suo tempo perseguito (con strumenti peraltro analoghi) da Atatürk. Resta ovviamente il fatto che Erdogan presenti, rispetto a quest’ultimo, comunque una personalità e un percorso politico-intellettuale assai particolari, che il libro indaga con attenzione. Ma le differenze nella formazione e nella psicologia tra i due leader, che pure rappresentano un aspetto non trascurabile ai fini della comprensione e valutazione delle loro scelte e azioni (si pensi, nel caso di Erdogan, a una certa ossessione paranoica accentuatasi in lui dopo i molti anni trascorsi al potere e che in parte spiega taluni cambiamenti nel suo modo di pensare e operare rispetto al passato), non bastano a nascondere – ecco il punto che ci sembra utile sottolineare – il fatto che il culto dell’uomo forte sia un elemento fondante del sistema politico-istituzionale della Turchia e della cultura politica che lo sostiene.

Ne nasce, con riferimento al modello multi-partitico e competitivo che formalmente contraddistingue il Paese, il problema di quando l’esperienza di Erdogan abbia contribuito ad accentuare certi caratteri “ibridi” ed “eccentrici” già presenti nella democrazia turca degli ultimi decenni. Uno dei temi che il saggio di Donelli affronta è appunto quello relativo alla tipologia all’interno della quale quest’ultima, soprattutto alla luce delle recenti evoluzioni costituzionali e tenuto conto della stretta repressiva operata dal regime dopo il fallito colpo di stato del luglio 2016, possa essere inserita. Rispetto alla formula della “democrazia illiberale”, oggi molto utilizzata per indicare quei governi o Stati che dentro e fuori l’Europa appaiono contrassegnati da un crescente rifiuto delle procedure e garanzie  tipiche dello Stato di diritto e da un rafforzamento del potere esecutivo senza alcun adeguato bilanciamento istituzionale, Donelli suggerisce quella, ossimorica all’apparenza, dell’“autoritarismo competitivo”. Una formula che non sarebbe dispiaciuta a Juan J. Linz, che tra i grandi scienziati politici
del secondo dopoguerra è stato quello che più ha lavorato alla costruzione di una complessa (e sovente aggiornata nel tempo) tipologia dei regimi cosiddetti “antidemocratici”, con una particolare attenzione proprio perle diverse varianti storico-istituzionali dell’autoritarismo.

Gli autoritarismi competitivi sono quelli nei quali si pratica, sempre per dirla con Linz, la “democrazia elettoralistica”: in essi il diritto di voto e di espressione è garantito, esiste una competizione partitica più o meno reale, ma nei fatti (e spesso anche dal punto di vista formale) si tratta di sistemi iper-presidenzialistici (e centralistici) nei quali i diritti delle minoranze, il ruolo di rappresentanza politico-sociale delle assemblee elettive, il rule of law, l’esistenza di poteri terzi o neutrali (a partire dalla magistratura) non sono sufficientemente garantiti e rispettati. La questione interessante, dal punto di vista politico-politologico, è se il diffondersi di un simile modello rappresenti il frutto di una congiuntura storica particolarmente negativa o sia indicativo di una trasformazione (involuzione) strutturale della democrazia in quanto tale, che in prospettiva potrebbe coinvolgere anche quelle più antiche e consolidate d’impianto tradizionalmente liberal-costituzionale.

Al tempo stesso, su un piano geopolitico, non si può trascurare il fatto che l’autoritarismo competitivo (comunque una forma di falsa democrazia, secondo lo standard etico-politico occidentale) sia il modello al quale si richiamano ormai alcuni dei più importanti e decisivi players mondiali, dalla Russia all’India, passando appunto per la Turchia. Il rischio è che esso – con il suo mix all’apparenza vincente di decisionismo sovrano e di modernizzazione economica, di stabilità istituzionale e di nazionalismo che favorisce la coesione sociale (anche a costo di sacrificare il pluralismo sociale e politico) – diventi sempre più attrattivo su scala globale, nella misura in cui le formule autoritarie classiche – con l’eccezione vistosa della Cina – tendono invece a perdere sempre più di legittimità e plausibilità. La lotta futura, a livello mondiale, sarà tra democrazie liberali e autoritarismi competitivi?

Naturalmente, un regime autoritario nel quale comunque si vota e si rispettano le procedure elettorali, dove comunque è presente una complessa struttura socio-economica e legale-istituzionale, pone sempre il problema di quali siano i meccanismi attraverso i quali viene costruito il consenso, dal momento che la repressione e la forza da sole non bastano a governare un Paese assai articolato, dal punto di vista sociale e territoriale, qual è ad esempio la Turchia. Anche su questo terreno, il volume di Donelli si rivela un prezioso contributo scientifico. Mostra bene infatti il modo con cui Erdogan, sin dalla sua decisiva esperienza come sindaco di Istanbul, ha costruito la rete di relazioni e alleanze che lo hanno prima portato al potere centrale e che gli consentono ancora di mantenerlo in modo saldo: si tratta di una complessa strategia fatta non solo di spirito affaristico, di ambizione personale e di capacità di comando, ma anche di abilità comunicativa di stampo schiettamente populista, di spregiudicatezza tattica, dell’indubbia capacità che egli ha avuto a presentarsi come un innovatore (e per molti versi lo è stato), come il restauratore dei valori religiosi tradizionali, come il difensore appassionato dell’identità nazionale della Turchia (e della sua integrità territoriale) e come il garante degli interessi economici dei settori socialmente e politicamente più influenti.

Al tempo stesso, una carriera politica lunga come quella di Erdogan ha inevitabilmente conosciuto accelerazioni e regressioni, cambi di fasi e di registro, mutamenti anche significativi (ad esempio sul piano delle alleanze internazionali, con l’avvicinamento alla Russia putinista e al blocco sciita) che questo libro documenta in modo minuzioso e sulla base di ipotesi interpretative spesso originali, a conferma del fatto che Federico Donelli – come del resto conferma la sua produzione intellettuale di questi anni – è probabilmente lo studioso italiano che più di altri merita di essere utilizzato come guida per comprendere la Turchia odierna e le sue – non prive di rischi anche sul piano internazionale – metamorfosi politiche. E dunque buona e proficua lettura.

 

Federico Donelli, Sovranismo islamico. Erdogan e il ritorno della Grande Turchia, LUISS University Press, Roma, 2019, pp. 180. Quella che si anticipa in queste pagine è la Prefazione al volume scritta da Alessandro Campi.

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