di Davide Ragnolini
I realisti, si sa, sono interessati a ciò che non muta nelle relazioni politiche degli uomini, o quantomeno a ciò che muta di meno. Capire la logica che presiede alle azioni politiche, sia tra individui che tra Stati, è l’intramontabile ambizione metodologica della tradizione realista, dominante ancora in buona misura gli studi internazionali. È questa che Barry Buzan in un suo articolo aveva definito, non senza ironia, come la “timeless wisdom” del realismo.
di Davide Ragnolini

I realisti, si sa, sono interessati a ciò che non muta nelle relazioni politiche degli uomini, o quantomeno a ciò che muta di meno. Capire la logica che presiede alle azioni politiche, sia tra individui che tra Stati, è l’intramontabile ambizione metodologica della tradizione realista, dominante ancora in buona misura gli studi internazionali. È questa che Barry Buzan in un suo articolo aveva definito, non senza ironia, come la “timeless wisdom” del realismo. E all’interno di questa lunga tradizione di ‘saggezza senza tempo’, curiosamente, si possono contare classici senza tempo.

Esattamente 70 anni fa compariva la ‘editio princeps’ dell’opera più probabilmente letta e discussa nella storia disciplinare delle relazioni internazionali: “Politics among Nations” di Hans Morgenthau. Non stupisce la perdurante attualità di quest’opera: proprio il tempo dei ‘classici’, come insegnava Schmitt seguendo la lezione di Nietzsche, è appunto un tempo “diverso”, differente da quello in cui le altre cose invecchiano. Quest’opera apparve nel corso del primo cosiddetto “Great Debate” delle relazioni internazionali, quello tra idealisti e realisti, e sopravvisse poi ai successivi “debates” di questa (piuttosto recente) disciplina. Il tecnicismo con cui si è soliti designare le tappe di questo acceso dibattito non deve inibire alcun lettore. È un braccio di ferro che travalicava i confini accademici della disputa, e che si riflette indirettamente perfino oggi negli opposti (dis)orientamenti dell’opinione pubblica sui principali temi della politica internazionale.

L’autore ne era certamente consapevole fin dalla prima pagina di quest’opera, basata interamente sulle sue lezioni all’Università di Chicago: “la storia del pensiero politico moderno è la storia di una controversia fra due scuole che differiscono radicalmente nella concezione della natura dell’uomo”; l’una piuttosto pessimista, l’altra piuttosto ottimista; l’una conservatrice e improntata alla prudenza politica, l’altra moralista e partigiana di princìpi universali; l’una pragmatica e l’altra più astratta e dottrinale. Già per il Kant di “Zum ewigen Frieden” (1795), del resto, la politica appariva come quel terreno scontroso di “moralisti dispotizzanti” e “politici moralizzanti”. Ma queste opposte dicotomie si potrebbero ancora moltiplicare, acquisire nuove sfaccettature e ragioni di antagonismo per ogni nuovo problema politico internazionale contemporaneo: l’integrazione degli Stati in organismi sovranazionali, la politica immigratoria, gli impegni congiunti in nuove campagne militari, l’interpretazione di cambiamenti costituzionali, i nuovi risorgenti identitarismi… Non è un segreto per l’osservatore realista della politica che questa muti costantemente il suo aspetto. Ma la stessa politica, proprio come Proteo trattenuto e incatenato, se costretta ad un rigoroso esame empirico e agli schemi di spiegazione più costanti, può rivelare le conseguenze più prevedibili del comportamento degli attori.

È forse questa sicumera epistemologica di conoscere ciò che l’uomo è, e dunque la pretesa di determinare ciò che deve fare, ad apparire perfino presso i realisti contemporanei il retaggio più problematico della lezione di Morgenthau. Per questo all’interno della tradizione realista delle relazioni internazionali sono seguite stagioni diverse: da quella strutturalista-difensiva di Kenneth Waltz, alla sua revisione da parte di Robert Keohane e John Ruggie negli anni ‘80, fino alla più recente versione ‘offensiva’ del neo-realismo di John Mearsheimer.

Il realismo ‘classico’ di Morgenthau, a tratti meno raffinato e più primitivo rispetto a quello articolato in opere successive, indica tuttora un vettore di fondo dell’agire politico, comune ai diversi orientamenti realisti. L’interesse definito come potere rappresenta la categoria universalmente valida con cui interpretare il carattere proteiforme della politica. I suoi sei princìpi del realismo politico nel primo capitolo di “Politics among Nations” sono probabilmente diventati, all’interno della tradizione realista, l’equivalente delle ‘tesi di Feuerbach’ per la più ampia, variegata tradizione marxista. Ma a differenza del marxismo, il realismo offre non una dottrina, quanto una sorta di ‘metodo minimo’ per spiegare i comportamenti più elementari di individui e – soprattutto per Morgenthau – degli Stati. Quando Morgenthau scriveva nel secondo dopoguerra, la società più estesa in cui gli appariva possibile convivessero gli uomini era quell’angusto Stato-nazione che ancora oggi, almeno certa retorica post-moderna, vorrebbe superato. E benché ad alcuni possano apparire come ‘capricci’, gli Stati, proprio come i singoli individui, hanno i loro bisogni e interessi.

Ci potremmo risparmiare numerose discussioni sul futuro dell’Unione Europea se – ma solo se – fossimo certi, come Morgenthau, che l’interesse è il movente fondamentale che insidia perfino i rapporti tra Stati alleati e le grandi coalizioni ideologiche tra attori internazionali che si sono susseguite nella storia. Del resto, la Santa Alleanza si sgretolò per una divergenza di interessi tra la monarchia costituzionale britannica e l’assolutismo legittimista e controrivoluzionario della Russia. Il ‘concerto europeo’ del XIX secolo fu l’età dell’oro dell’equilibrismo diplomatico degli Stati europei, in cui gli opposti interessi intraeuropei potevano trovare ampio accomodamento nei ‘vuoti spazi’ extraeuropei. Per Morgenthau la Società delle Nazioni del primo dopoguerra era viziata da debolezze costituzionali, strutturali e politihe che ne avrebbero progressivamente eroso la sua funzione di governo. L’Organizzazione delle Nazioni Unite, a partire dal secondo dopoguerra, è sorretta su quello che Morgenthau definiva un “governo delle superpotenze”, cioè un’aristocrazia dei big geopolitici che è piuttosto contraria all’uguaglianza formale degli Stati proclamata nel suo statuto.

L’attuale transizione dell’ordine internazionale del secondo dopoguerra ad un ordine in senso multipolare sembra seguire la medesima, inflessibile logica degli interessi; quella che già il duca di Rohan, nel suo trattato “De l’intérêt des princes et états de la chrétienté” del 1638, aveva presentato come il principio supremo, che comanda i prìncipi in modo simile a come questi comandano i sudditi. Il pessimismo, allora, sarebbe il solo atteggiamento razionale possibile di fronte alla politica di ieri e di oggi.

Ma “Politics among Nations”, comunque, con le sue oltre cinquecento pagine e 25 capitoli, non è affatto un breviario di morale machiavelliana, né un’enciclopedia di politica internazionale. È un’opera con cui i lettori di oggi possono ancora intrattenere un rapporto ‘socratico’ e coltivare il beneficio del dubbio su alcune dominanti narrazioni circa il destino del mondo degli Stati-nazione.

Nell’opinione comune contemporanea, infatti, ci si può imbattere, ancora oggi, nelle medesime fallaci convinzioni commentate da Morgenthau 70 anni fa. Ancora recentemente, la polemica contro gli identitarismi ha spesso tracimato, come già osservava lo studioso americano, in un negazionismo ‘tout court’ delle identità nazionali stesse; un approccio moralista alla politica internazionale ha spesso legittimato interventi militari secondo quello “schema di pensiero” che Morgenthau definiva “di stampo demonologico”: quello per cui i problemi si risolverebbero con la demonizzazione e rimozione di singoli politici al vertice di alcuni Paesi. Le certezze sulla preservazione dell’ordine mondiale del dopoguerra, ancora oggi, tendono a far dimenticare due fatti fondamentali della vita internazionale descritta in “Politics among Nations”: che il diritto internazionale ha tutt’ora un carattere decentralizzato, affatto diverso da quello esistente nei singoli Stati, e che gli attori favorevoli e contrari allo status quo mondiale si ripresentano in tutti i periodi storici.

Insomma, quella “ricchezza” del realismo, come la definì Robert Gilpin in polemica con Richard Ashley negli anni ‘80, può apparire oggi ridimensionata alla luce di un crescente pluralismo di orientamenti nel dibattito internazionalistico. Ma non forse al punto da adombrare il contributo di un classico, che abbiamo ancora bisogno di rileggere.

Ph.D Candidate – Consorzio Filosofia del Nord Ovest (FINO) – Università degli Studi di Torino

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