di Alessandro Campi

thTutti li vogliono, tutti li cercano, tutti li blandiscono. Stiamo parlando degli elettori moderati, centristi, anti-sinistra. Insomma, di quelli che un tempo votavano convintamente Berlusconi e che poi, delusi da quest’ultimo, a partire dal 2011 progressivamente si sono rifugiati nell’astensionismo, nel non-voto di protesta o nel voto dato occasionalmente e in libertà a questo o quello, secondo la convenienza del momento. Tutto ciò in attesa di tempi migliori, vale a dire di un nuovo leader in grado di stimolarli, o capace di dare corpo ai loro umori (inclusi quelli cattivi) e degna rappresentanza ai loro legittimi interessi economici.

Ci provò già Monti, nel 2013, a catturare questa composita fascia di votanti, fatta di imprenditori, casalinghe, professionisti, commercianti, lavoratori del pubblico impiego, pensionati, ben distribuita dal Nord al Sud. Ma l’uomo risultò algido e di scarso appeal mediatico; era il gran borghese propugnatore di un’etica rigorista che non poteva piacere ai piccolo-borghesi un po’ anarchici e scapestrati; portava altresì la colpa di aver preso due anni prima il posto del Cavaliere – gran vincitore di memorabili campagna elettorali – grazie ad un colpo di Palazzo e avendo ottenuto il blasone senatoriale per volontà del Quirinale e non del popolo. Scelta Civica, a fronte dei sondaggi generosi ma poi clamorosamente rivelatisi fallaci, non fu mai nemmeno lontanamente quel grande aggregatore di speranze, desideri e entusiasmi che erano state, per il moderatismo italico, Forza Italia e le sue successive gemmazioni partitiche. E infatti si è vista la misera fine di quel partito.

Venne poi il turno di Matteo Renzi, l’astro nascente del riformismo, post-berlusconiano laddove la sinistra era stata sino al giorno prima virulentemente anti-berlusconiana. Anche la sua idea era che convenisse spostare il Pd leggermente verso il centro per conquistare parte almeno di quei tanti elettori moderati in libera uscita e in cerca di una nuova casa. Da qui le sue sparate contro la burocrazia, le accuse al sindacato troppo antiquato e conservatore, gli occhi dolci fatti agli imprenditori, le proposte per un mercato del lavoro più snello, gli incontriun po’ troppo cordiale e reiterati col mondo dell’alta finanza, la riforma manageriale e meritocratica della scuola, l’affermazione che patriottismo e sicurezza siano valori di sinistra, l’annuncio di voler fare un ‘partito della nazione’, etc. Insomma, tutte quelle cose che gli sono costate una dolorosa scissione a sinistra ma che non si capisce quanti voti gli abbiano effettivamente fatto guadagnare a destra. A giudicare dai risultati elettorali, benché di consultazioni locali, e dall’esito nefasto del referendum costituzionale, pochi un bel po’.

Adesso ci prova un altro astro nascente: Luigi Di Maio, candidato a guidare il futuro governo in nome del M5S. Col popolo della sinistra gravato già da troppi pretendenti, come il suo illustre concittadino Totò anch’egli ha deciso di buttarsi (leggermente) a destra con tutto il suo movimento. Cosa nel suo caso peraltro più facile a farsi rispetto al Pd renziano, visto che i grillini nel loro corpaccione già contengono di tutto un po’: dalla sinistra no global alla destra estrema, passando appunto per Di Maio: centrista (democristiano mellifluo, dicono gli avversari), moderato anche quando è aggressivo, faccia da bravo ragazzo, sempre in giacca e cravatta, di discreta e convincente eloquenza anche quando si lascia scappare enormità politiche che in altri Paesi costerebbero la carriera.

Ieri il Nostro s’è l’è presa con i sindacati, che in effetti è ormai come sparare sulla Croce Rossa, anche se a livello di immaginario la cosa fa sempre un certo effetto tra gli elettori, per dirla all’ingrosso, non di sinistra. Questi ultimi infatti si ricordano cosa sia stata la Triplice – una falange capace di paralizzare un Paese e d’imporre sempre le proprie condizioni ai governi – prima che la loro base associativa, un tempo fatta da operai e lavoratori pubblici, divenisse in maggioranza composta da pensionati.

Il messaggio è dunque politicamente chiaro. Come è chiaro ciò che il M5S ha detto nei giorni scorsi sul tema dello ius soli (e più in generale sull’immigrazione). L’amo a destra, mentre si avvicinano le elezioni, è stato lanciato. Il che ovviamente non vuol dire una virata dei grillini in senso conservatore o moderato. Restano al contrario una forza a suo modo barricadiera e rivoluzionaria. Ma per andare al governo (per di più da soli) ci vogliono più voti di quelli che i sondaggi accreditano loro; e quei voti al lmomento possono tatticamente venire solo dall’ampio bacino elettorale del vecchio centrodestra berlusconiano. Al quale Di Maio, se è vero che in politica oltre le parole contano anche le pose, ha deciso di ammiccare facendo televisivamente il verso al Berlusconi del 1994, quello della ‘discesa in campo’. Il video si trova in Rete e sembra in effetti un messaggio subliminale rivolto ai nostalgici del Cavaliere dei tempi d’oro.

Il problema è se gli elettori moderati, abitualmente silenziosi ma di una scaltrezza che i politologi nemmeno si immaginano, si faranno convincere o se con Di Maio finirà come è finita con Monti e Renzi. Viene infatti il sospetto, da certi movimenti politici e d’opinione che si registrano, che probabilmente sarà Berlusconi a riprendersi al momento del prossimo voto i suoi vecchi sostenitori. Non tutti, ovviamente. Qualcosa – tra quelli più arrabbiati – ha già regalato a Salvini. Ma come ha parlato al moderatismo italiano il Cavaliere, titillandone il sentimento profondo, toccandone le giuste corde emotive, non ha parlato nessun’altro mai. E’ una relazione politico-affettivo-antropologica nata oltre vent’anni fa, andata avanti tra alti e bassi, ma che nessuno sinora è riuscito a spezzare. Sta dunque a vedere che anche stavolta la casa dei moderati, dove tornare ritrovando i vecchi amici nel frattempo un po’ invecchiati, sarà ancora quella berlusconiana della libertà.

*Editoriale apparso su ‘Il Mattino’ e, come articolo di commento, sul ‘Messaggero’ del 1° ottobre 2017.

 

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