di Federico Donelli

crimeaNei giorni in cui la Repubblica autonoma di Crimea viene annessa, in maniera più o meno legittima, alla Federazione Russa è curioso notare come vi sia una continua, troppo spesso sommaria e imprecisa, rievocazione di molti degli eventi che coinvolsero la penisola affacciata sul Mar Nero. In particolare, l’avvenimento di grande rilevanza storica rimasto – seppure vagamente – impresso nella memoria collettiva è il conflitto combattuto nella provincia, allora ottomana, di Crimea tra il 1854 e il 1856 e che vide l’Impero Russo nella veste di aggressore scontrarsi con una strana alleanza composta da Impero Ottomano, Gran Bretagna, Francia e Regno di Sardegna. Una guerra che, per la prima volta, assunse le fattezze dei conflitti moderni entrando prepotentemente nell’immaginario popolare facendo da stimolo ai germi dell’imperialismo ottocentesco. La guerra di Crimea fornì alle classi medie europee in rapida ascesa i primi eroi della patria, la possibilità di venerarli e con essa di coltivare le rispettive leggende. I luoghi di quelle battaglie al pari dei nomi dei loro protagonisti rimangono una presenza costante nel nostro vivere quotidiano grazie alla toponomastica urbana che ha reso vie e piazze cittadine piccoli mausolei di ricordi sbiaditi che rimandano a luoghi lontani, difficilmente collocabili su una mappa geografica. Nomi che, tendenzialmente, sollecitano la mente a pensare a mondi orientali, esotici come la baia di Sinope, che in Crimea non è. I fatti però rimangono sconosciuti tanto che sono pochi, anche in un’aula universitaria, quelli saprebbero giustificare il nome di “Piazza della Cernaia” (Chernaia) a Genova o in altre città italiane. Ma quale fu realmente il peso storico di quella guerra?. Quali ricadute ebbe non solo tra i corridoi delle cancellerie europee ma sulle società? Quale il ruolo della modernità?, di un progresso dirompente i cui effetti troppo spesso verranno, colpevolmente, sottovalutati?.

Desistendo dal fornire un diacronico e lineare resoconto degli avvenimenti si fa breve accenno alla più comune nonché inflazionata prospettiva “italianocentrica” sulla questione; in essa a risaltare è la lungimiranza di Cavour, il quale, promuovendo l’invio di truppe sarde – quindicimila circa – al fianco degli eserciti franco britannici, acquisì un importante credito in chiave risorgimentale. Un credito che lo stesso statista piemontese riscosse al tavolo della pace di Parigi dove, per la prima volta, quel che restava del traballante concerto europeo affrontò la delicata questione italiana. Senza la Crimea quindi, probabilmente, sarebbe mancato il fermo sostegno diplomatico alla seconda guerra di indipendenza e, elemento rilevante, l’appoggio dell’opinione pubblica francese che vide nella “campagne d’Italie de 1859” una riproposizione della vittoriosa alleanza di Crimea. Un dato che evidenzia il ruolo anche politico che iniziavano ad assumere gli strati più dinamici delle società europee e più nello specifico uno degli elementi innovativi proposti per la prima volta durante i mesi di scontri in Crimea: il processo di ‘mediatizzazione’ della guerra.

Mediatizzazione significò resoconti, ovviamente non quotidiani e immediati, ma comunque in presa diretta con descrizioni accurate non solamente di scontri dal carattere epico ma, piuttosto, delle sofferenze e delle aspre condizioni in cui erano costretti a combattere i soldati. Molti di loro morivano ancora prima di poter sparare un colpo di fucile colpiti da epidemie di colera, uragani e inverni rigidi colpevolmente sottovalutati dai comandi militari. Mediatizzazione significò anche progresso e modernità. Per la prima volta dietro le prime linee fecero la loro comparsa i corrispondenti di guerra, i quali, grazie al telegrafo – simbolo insieme alla ferrovia di una nuova concezione dell’uomo della dimensione spazio temporale – inviavano i propri articoli in patria. Tra loro spiccò una delle figure più importante del giornalismo ottocentesco, divenuta nel tempo mitica, quella dell’inviato del ‘Times’ William H. Russell. Cronista affermato nonché fine scrittore, Russell è entrato nella storia del giornalismo anglosassone grazie alle lucide descrizioni dei cruenti combattimenti e, in misura anche maggiore, della generale inefficienza e impreparazione dei quadri dell’esercito britannico. I suoi articoli, soggetti in molti casi anche a censura, portarono alla caduta del governo guidato dal Primo Ministro George Hamilton Gordon Conte di Aberdeen. Fatto curioso fu che a promuovere l’invio di corrispondenti in Crimea era stato lo stesso esecutivo nella speranza di aumentare i consensi presso un opinione pubblica che faticava comprendere la necessità dell’intervento inglese in un’area non direttamente legata ai propri domini. Ma allora perché la Gran Bretagna decise di intervenire?. La domanda trova risposta nella volontà di garantire la sicurezza delle rotte commerciali verso l’India, una sicurezza venuta meno a causa del potenziamento della flotta russa che, già allora, aveva in Sebastopoli la propria roccaforte navale nonché sbocco invernale sul Mar Mediterraneo. A preoccupare il Foreign Office britannico furono gli impressionanti sviluppi tecnici raggiunti dalla flotta di un impero che, agli occhi delle diplomazie europee, rappresentava il manifesto dell’arretratezza politica, economica e tecnologica. Durante l’inaspettato attacco alle navi ottomane attraccate nel porto di Sinope, città posta sulla costa meridionale del Mar Nero, la flotta dello Zar utilizzò un’arma fino a quel momento sconosciuta che avrebbe rivoluzionato l’intera industria marittima: la granata. I resoconti dei pochi turchi sopravvissuti colpirono a tal punto i diplomatici britannici da convincerli ad intavolare le trattative con la Sublime Porta per concludere un’alleanza in chiave anti-russa. La granata ebbe sui conflitti navali un effetto simile a quello avuto trent’anni dopo dalla mitragliatrice; il genio dell’uomo mostrava così, una volta di più, i risvolti drammatici delle proprie sorprendenti creazioni.

Ma ciò che più condizionò quella guerra provocando ripercussioni allora inimmaginabili anche sulle generazioni successive fu un’altra innovazione strategica, o meglio tattica, anch’essa pensata con l’intento di salvaguardare maggiormente la vita dei soldati ma diventata nei fatti una trappola mortale per i nuovi martiri, eroi della patria: la trincea. La guerra di posizione soppiantò le tradizionali battaglie a campo aperto con cariche e combattimenti corpo a corpo. Tuttavia nonostante l’introduzione della trincea, la guerra di Crimea rimase stampata nella memoria popolare grazie all’unica carica compiuta dai cavalleggeri britannici; una azione nata in chiave difensiva che nel tempo assumerà i contorni leggendari grazie anche alla famosa produzione cinematografica dei “seicento di Balaklava” diretto da Tony Richardson.

La realtà fu però assai diversa; caratterizzata da una guerra di trincea che, purtroppo, verrà considerata come strategia di successo da riproporre a distanza di oltre mezzo secolo nel primo conflitto mondiale. Tra quanti, prima di tutti compresero l’atrocità di questa tattica, con l’accentuarsi degli strazi e delle sofferenze patiti nella pancia di un fossato, ci fu non solo il già citato Russell ma anche un giovane ufficiale dell’artiglieria russa, un ventisettenne dal cuore sensibile e l’animo nobile: Lev Tolstoj. La sua esperienza al fronte, racchiusa ne “I racconti di Sebastopoli”, presenta i tratti malinconici di chi non solo si domanda la ragione di tali sofferenze ma anche, mosso ancora da ingenuo spirito patriottico, comprende gli affanni di un’intera nazione. Ricordi che renderanno “Guerra e Pace” non solo un capolavoro letterario ma anche un utile strumento per comprendere le dinamiche politiche e più di ogni altra cosa psicologiche interne al grande impero russo.

Le poche righe testé scritte, presentano alcuni dei fatti meno noti che caratterizzarono la Guerra di Crimea causando conseguenze profonde e durature. Il trattato di Parigi del 1856 ridisegnò i vecchi equilibri di potere e i rapporti di forza dell’intera area euro-mediterranea. La guerra, con quasi un milione di morti, rappresentò a tutti gli effetti una ulteriore tappa della cosiddetta questione d’Oriente nonché un episodio chiave per comprendere il drammatico divenire degli eventi, che sarebbero sfociati nella Prima Guerra Mondiale.

 

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