di Alessandro Campi

Le incertezze del governo circa le misure da adottare per affrontare la crisi dei conti pubblici e rilanciare la crescita economica stanno generando un crescente senso di disorientamento nell’opinione pubblica, fatalmente destinato ad alimentare il malessere dei cittadini nei confronti della politica e dei suoi rappresentanti. Come si può stare tranquilli circa il proprio futuro, come si può avere fiducia nelle istituzioni, quando chi ci governa cambia opinione ogni giorno o dà l’impressione di non avere alcuna idea precisa sul da farsi?

Da un mese, a fronte di un’emergenza che si sta facendo ogni giorno sempre più drammatica, stiamo in effetti assistendo ad uno spettacolo a dir poco preoccupante: non c’è decisione o provvedimento che, dopo essere stato pomposamente annunciato come risolutivo e indispensabile, non sia stato stravolto o cassato al primo accenno di protesta sociale o al primo segnale di malumore proveniente dalla stessa maggioranza. Viene da chiedersi se siamo nelle mani di un gruppo di dilettanti, cui un destino beffardo ha consegnato le chiavi del Paese, o se, come alcuni sostengono, la situazione finanziaria dell’Italia è talmente compromessa da non consentire ormai alcuna via d’uscita.

Ma forse ci sono altre spiegazioni, meno estemporanee ed emotive, che possono aiutarci a capire sia i continui ripensamenti del governo sia il clima di caos nel quale sembrano essere piombate la politica e la società italiane nel loro complesso.

Per quanto riguarda Berlusconi, il decisionista che non riesce più a decidere alcunché, è chiaro che sta pagando un prezzo salato per la sua sopravvivenza politica. Dopo la defezione dei finiani si è messo a capo, con la consueta caparbietà, di una maggioranza parlamentare politicamente posticcia, che lo condiziona e lo ricatta ad ogni passo. Gli avventurieri e i transfughi che ha imbarcato vogliono soltanto chiudere la legislatura, nella certezza che difficilmente avranno un futuro politico. La Lega, che gli attesta fedeltà ad ogni passo, punta invece unicamente a lucrare consensi per sé e i propri elettori del Nord in attesa della resa dei conti finale.

In queste condizioni, tutto ciò che il Cavaliere può fare – come si è visto – è mediare all’infinito, cercare di accontentare tutti coloro che, sempre più strumentalmente, lo sostengono. Il “grande coalizzatore”, colui che in questi anni ha tenuto insieme tutto e il suo contrario in virtù del suo indubbio carisma e della sua spaventosa forza finanziaria, si è infine scoperto prigioniero delle forze eterogenee e sempre più centrifughe che ha assemblato. Nemico della “vecchia politica”, parolaia e accomodante, ha finito per praticarla a sua volta, con esiti al limite dell’inconcludenza. Fautore del “culto della personalità”, si è ridotto a gestire, all’interno del suo stesso governo, personalismi e ambizioni d’ogni tipo. Fautore del pragmatismo aziendalistico e della politica del “ghe pensi mi”, uomo abituato ad eccellere nei momenti difficili, si trova ora alle prese con un’emergenza che lo sovrasta e che lo condanna all’impotenza e ad un’eterna lamentazione.

Gettare la croce sul solo berlusconismo sarebbe però un errore. Lo smarrimento del governo dinnanzi ad una crisi che non sa come affrontare è pari al conservatorismo, alla mancanza di qualunque percezione del bene comune o dell’interesse generale, di cui hanno dato prova, in queste settimane di passione, tutti gli altri attori sociali e politici: sindacati, categorie professionali, associazioni d’impresa, partiti d’opposizione e gruppi d’interesse d’ogni tipo. Su quale visione ideale o idea complessiva dell’Italia e del suo futuro, diversa o migliore rispetto a quella che dovrebbe sostenere le scelte dell’attuale maggioranza, poggiano le loro richieste, proposte e rivendicazioni? Se il governo naviga a vista, incapace di promuovere anche la minima riforma e preoccupato solo di non scontentare la sua base elettorale, chi gli si oppone sembra mosso unicamente dal desiderio di conservare l’esistente, di salvaguardare i privilegi acquisiti, di tutelare a sua volta gli interessi, piccoli e grandi, che rappresenta, senza alcuna capacità di pensare al domani o alle sorti dell’Italia nel suo complesso.

Insomma, se è vero che il berlusconismo sta tristemente consumando la parabola, avendo ormai perso ogni ambizione riformistica e modernizzatrice, è anche vero che la società italiana tutta intera funziona male: è sclerotico il suo sistema politico-istituzionale, sono chiuse e autoreferenziali le sue articolazioni organizzative, è povera e obsoleta la cultura che ispira i partiti e i sindacati, è settaria e particolaristica la mentalità dei cittadini, sono privi d’aspettative e speranze i suoi giovani, non ispirano fiducia e rispetto le sue classi dirigenti, è oppressivo e obsoleto il suo apparato burocratico, ha perso la voglia di rischiare il suo ceto imprenditoriale.

Ciò significa che all’Italia, per come è ridotta oggi, non basta una manovra che la salvi, magari temporaneamente, dal disastro economico (e che a dispetto dell’urgenza nemmeno si riesce a fare). Serve un patto politico di rifondazione. Il male che l’attanaglia non è l’economia stagnante, ma il lento sfibrarsi del suo tessuto civile.