Quando la voce di molti intellettuali si leva a sostegno di una causa politica – in questo caso un governo del M5S da far nascere con l’appoggio determinante del Pd – è lecito il sospetto che dietro tanta passione si celi un inganno consapevole o un errore in buona fede. Potrà sembrare ingeneroso o persino greve, ma questo dice la storia: gli abbagli della cultura hanno spesso preceduto le catastrofi della storia. Senza contare che l’uomo di pensiero che dà consigli perentori all’uomo d’azione dovrebbe prima mettersi nei suoi panni e chiedersi,

Quando la voce di molti intellettuali si leva a sostegno di una causa politica – in questo caso un governo del M5S da far nascere con l’appoggio determinante del Pd – è lecito il sospetto che dietro tanta passione si celi un inganno consapevole o un errore in buona fede. Potrà sembrare ingeneroso o persino greve, ma questo dice la storia: gli abbagli della cultura hanno spesso preceduto le catastrofi della storia. Senza contare che l’uomo di pensiero che dà consigli perentori all’uomo d’azione dovrebbe prima mettersi nei suoi panni e chiedersi, se avesse le sue stesse responsabilità, quale sarebbe la sua scelta effettiva: quella che suggeriscono la convenienza e il buon senso o quella che dettano una ragione spesso astratta e un moralismo quasi sempre interessato?

Che per il Pd l’abbraccio col partito di Grillo, a qualunque condizione, sarebbe un modo per consegnarsi al proprio boia lo capisce anche un bambino. Non è un problema di responsabilità dinnanzi alla nazione, ma di sopravvivenza di fronte alla (propria) storia. Senza contare il danno che ne verrebbe al Paese: si provi solo ad immaginare il funzionamento giorno per giorno di un simile, a dir poco innaturale, governo. Su cosa si potrebbe essere d’accordo se si è in disaccordo su tutto? Si capisce dunque perché nei giorni scorsi la Direzione nazionale del partito, riunita proprio per decidere il da farsi dopo la sconfitta e per definire il cammino che porterà alla nomina di un nuovo segretario, abbia ribadito la linea, già anticipata da quello uscente, dell’opposizione parlamentare. Da un lato si tiene conto, ma è una dolorosa necessità, dell’esito elettorale infausto. Dall’altro ci si mette nell’unica condizione (l’opposizione, ovvero stare fermi almeno un giro) che possa consentire al Pd, finita sembrerebbe per sempre la parabola di Matteo Renzi, di ricostruirsi una leadership, una linea politica e un’immagine.

Missione impossibile, dicono in molti. Ma sono all’incirca gli stessi che davano per finito Berlusconi già una quindicina di anni fa. Il bello della politica, regno della pura invenzione e spesso della casualità, è che nulla dura per sempre. L’unica legge che la governa – come diceva Gianfranco Miglio, di cui proprio in questi giorni è caduto il centenario della nascita – è l’eterna reversibilità delle parti: oggi si perde, domani di vince. Anche se per rivincere domani bisognerebbe prima capire perché oggi si è perso vendo vinto appena ieri.

Ecco dunque il primo passaggio che dovrà compiere il Pd e che a Renzi, troppo sicuro di sé, più testardo che orgoglioso, non è mai riuscito (ad esempio all’indomani della sconfitta al referendum): spiegarsi con ragioni politiche plausibile, lasciando stare complotti e tradimenti personali, cosa non abbia funzionato nel rapporto con gli elettori. E’ quell’esercizio mentale che si chiama autocritica e che era un’antica specialità della sinistra: necessaria e salutare a patto ovviamente che non si esageri nell’autoflagellazione o non si costruiscano, per assolversi, capri espiatori immaginari.

Nel caso della segreteria Renzi non ha certamente funzionato il profilo caratteriale di quest’ultimo, spesso portato alla supponenza e allo scontro personale nel segno di un astio nemmeno celato. Così come lo stile della sua leadership: solitaria e assolutistica come quella di Berlusconi, con la differenza che quest’ultimo ha sempre avuto un tratto di travolgente simpatia e di umana generosità che il fiorentino, assai più ispido del Cavaliere pur avendolo imitato su molte cose, è parso non avere. Ma la psicologia spiega ancora poco. In realtà quel che davvero non ha funzionato, col senno del poi, è stato il renzismo come progetto politico. Era una buona idea, per sottrarsi all’agonia infinita del post-comunismo, cercare di costruire una sinistra liberal-riformista che potesse dialogare col mondo produttivo e con gli elettori del fronte centrista-moderato, nella prospettiva di una politica all’insegna del rinnovamento generazionale, delle politiche di modernizzazione e del superamento delle ideologie novecentesche. Ma ciò avrebbe probabilmente comportato un rimescolamento delle carte politiche, un’innovazione vera e profonda nell’offerta, anche in termini partitico-organizzativi, che Renzi non ha invece realizzato. Era davvero troppo pensare di portare i berlusconiani delusi o curiosi all’interno di un partito che era pur sempre il Pd, dunque una permutazione della sinistra storica d’ascendenza comunista con qualche innesto post-democristiano. Ha perso dunque consensi, da parte di chi lo accusava da sinistra d’essere scivolato a destra, senza acquisire quelli di chi lo considerava pur sempre un uomo dell’altra sponda ideologica.

Senza contare che il riformismo è per definizione dialogo con le parti sociali, mediazione tra interessi collettivi spesso divergenti, riconoscimento del pluralismo sociale e dell’autonomismo associativo. Laddove il renzismo, espressione di una post-modernità ingenuamente declinata in termini di pura velocità e d’immediatezza nei rapporti, ha pensato di affermarsi negando come ormai obsolete le tradizionali forme di mediazione sociale e politica. Errore fatale, di metodo e di forma, in un Paese complesso e articolato come l’Italia, dove gli apparati e le corporazioni sono certamente un freno al decisionismo dei governi ma anche lo scudo che ancora impedisce al cittadino di trovarsi solo e nudo dinnanzi al potere.

Ma gli errori non vengono mai da soli. Probabilmente da parte di Renzi c’è stato anche un eccesso di giovanilismo culturale, che si è tradotto in una lettura un po’ troppo ottimistica della globalizzazione e delle sue dinamiche tecnologiche, senza intravvederne i contraccolpi sociali negativi. Il renzismo si è messo un po’ troppo dalla parte dei vincenti e degli innovatori, trascurando i perdenti e coloro che vivono con disagio le continue accelerazioni della storia. Il mito del futuro non è il futuro reale che la politica dovrebbe costruire.

In tutti questi anni il Pd non è stato inoltre aiutato dal suo sembrare, anche sotto Renzi, sempre più l’espressione politica di una generica borghesia progressista d’estrazione urbana che, oltre a compiacersi un po’ troppo del suo superiore status civico-intellettuale, s’è spesso mostrata infastidita e insofferente dinnanzi a qualunque forma di disagio o protesta popolare, subito rubricato come estremismo populista. Il risultato è che le classi popolari del Nord e del Sud si sono affidate, per reazione istintiva, agli unici partiti (M5S e Lega) che sono parsi dare loro un qualche ascolto. A questo si aggiunga poi una forma di (auto)rappresentazione pubblico-mediatica del Pd che da Veltroni ai potenziali successori odierni di Renzi (Calenda, Gentiloni, Zingaretti) presenta tratti fastidiosamente romanocentrici, di un’antropologia politica che in molti italiani evoca le camarille dei palazzi del potere e la politica dei privilegi. Ed è anche questo un problema, propriamente d’immagine, che andrà prima o poi affrontato da questo partito. La cui eventuale rinascita non dipende dalle alchimie e dai giochi parlamentari che si consumeranno nei prossimi giorni, tanto meno dall’esito delle lotte interne che già si annunciano, ma dalla capacità che avrà a ripensare interamente, proprio grazie alla dura sconfitta che ha subito, strategie, programmi e gruppi dirigenti.

* Editoriale apparso su ‘Il Messaggero’ del 13 marzo 2018

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