di Riccardo Fanciullacci
Del mondo che verrà, non spetta più solo ai profeti parlarne. Diveniamo di giorno in giorno più consapevoli del fatto che sarebbe irrealistico aspettarsi un ritorno alla forma di vita che la pandemia ha sconvolto e obbligato a sospendere. Confesso che io ho cercato di resistere in tutti i modi a questa presa d’atto e l’ho fatto nell’unica maniera in cui lo si può fare, non certo perseguendo intenzionalmente l’inconsapevolezza, ma volgendo lo sguardo altrove,
di Riccardo Fanciullacci

Del mondo che verrà, non spetta più solo ai profeti parlarne. Diveniamo di giorno in giorno più consapevoli del fatto che sarebbe irrealistico aspettarsi un ritorno alla forma di vita che la pandemia ha sconvolto e obbligato a sospendere. Confesso che io ho cercato di resistere in tutti i modi a questa presa d’atto e l’ho fatto nell’unica maniera in cui lo si può fare, non certo perseguendo intenzionalmente l’inconsapevolezza, ma volgendo lo sguardo altrove, lasciandomi scivolare in quelle manovre della malafede per cui, ad esempio, raccoglievo qua e là solo le notizie che mi consentivano di minimizzare l’emergenza, di aver fede nel fatto che le misure imposte fossero la strategia migliore per chiudere rapidamente questa parentesi e, nel frattempo, di dedicarmi ad altro. Per nominare la dimensione tragica della pandemia ho poi adottato parole esteriori. E come dimostra la frase che ho appena scritto, non sono ancora stato capace di sostituirle con una lingua incarnata: non basta certo usare la parola “tragedia” per rendere onore agli accadimenti che essa pure designa. Perché in effetti arriva a designarli, li raggiuge, ma senza la dovuta serietà. La lingua funziona da sola, ma la serietà è responsabilità del parlante che deve trovare nell’esperienza di che autorizzarsi a usare certe parole. E la parola “tragedia” io non me la posso permettere perché mi sono troppo tenuto alla larga, con la mente e col cuore, da quel che nomina. Da quel che ad altri evoca. Da ciò a cui altri sarebbero effettivamente rinviati da quel mio uso vile. Non è dunque da questa parte che mi è giunta la rivelazione che non di una parentesi si tratta e che l’emergenza non è una situazione eccezionale destinata a lasciare rapidamente il campo al ritorno della regola. È accaduto piuttosto pensando al futuro. Al futuro del mio bambino, se devo dirla tutta.

Mi sono accorto pian piano, ma sempre più nettamente, che il ritorno alla normalità si stava allontanando troppo per non obbligare a pensare il presente in modo diverso. L’intervallo tra il prima e il dopo mi si è rivelato a un certo punto troppo lungo per essere accettato come una sospensione. Più esattamente, è troppo incerto il suo termine per poter essere vissuto distrattamente come il tempo della breve rinuncia e soprattutto del rimando, del rimando a quando tutto tornerà come prima. Rivolgere l’attenzione altrove, che siano i lavori in sospeso, l’intera filmografia di Fellini o le ricette della propria regione è in fondo un buon modo di corrispondere a un tempo che si presenta come un arresto momentaneo. Ma se il momento si prolunga ? Se si prolunga non di una settimana o di un mese, ma in una serie di provvedimenti e misure che allontanano sempre di più il fatidico ritorno alla normalità? Se si profila sempre più nettamente la possibilità, se non il rischio, che quella normalità sarà caratterizzata da atteggiamenti e maniere di entrare in relazione che si sono insinuate tra noi presentandosi solo come profilassi temporanee?

Di fronte a questo presente che si prolunga, bisogna cambiare posizione. Non è più possibile affrontarlo come una pausa tra il passato e un imminente ritorno di quel passato. E non mi pare neppure che sia il momento in cui fantasticare su quel che verrà, che sia l’unità della solidarietà o un gigantesco stato di polizia. Questo presente sospeso, quanto più si dilata nel futuro, tanto più si rivela lui stesso il futuro. Non siamo più in una emergenza, in cui è del tutto ragionevole affidarsi al ragionamento tecnico degli esperti: le notizie e le ipotesi sui modi e le forme della cosiddetta “fase 2” lasciano intendere che i limiti temporali di una emergenza sono stati superati. Occorre riaprire le riflessioni che il ragionamento tecnico giustamente fa tacere. È la nostra vita quella che stiamo prolungando in queste forme, forme che tutti hanno giustamente accettato, ma in quanto eccezionali. Si trattava di salvare la vita sospendendo le forme in cui la praticavamo. Ora però io comincio a chiedermi quale forma di vita stiamo salvando. Ed è una domanda vera, non un modo per dire che questa vita che stiamo salvando, cioè questo vivere che sarebbe solo un salvare la vita, sia in realtà un vivere troppo povero.

***

Ho notato con dispiacere che tutti quelli che hanno cercato di porre la domanda che ho appena evocato sono stati giudicati nel migliore dei casi come imprudenti, nel peggiore come irrispettosi del lavoro dei medici e di tutti quelli che, per combattere il virus rischiano la vita e che a noialtri chiedono solo di stare un po’ a casa. Forse anche per paura di essere sospettati o accusati così, molti tra quelli che hanno provato a porre quella domanda, lo hanno fatto in modi tanto reticenti da renderla illeggibile. Proverò a spiegare com’è che sono arrivato a convincermi che sia invece una domanda importante. Importante in assoluto, ma importante anche per onorare il lavoro dei medici e i rischi che corrono per noi.

Di solito si dice, e anch’io l’ho lasciato intendere poco fa, che il ragionamento tecnico riguarda i mezzi più efficaci per realizzare un certo fine, ad esempio i mezzi più efficaci per sconfiggere l’epidemia salvando il maggior numero possibile di vite umane. Spetterebbe invece al ragionamento politico stabilire i fini degni di essere realizzati. Si aggiunge però che, in questo caso, nessun ragionamento politico è davvero necessario, visto che l’importanza della sopravvivenza è evidente. E se la dignità del fine è evidente, allora poi non abbiamo bisogno d’altro che di esperti che calcolino i mezzi più efficaci. (Da qui, tra l’altro, l’inquietudine che ci investe quando siamo costretti a registrare che gli esperti non sono sempre d’accordo tra loro). Di fronte a una sequenza così serrata, chi vuol formulare domande non può che apparire come qualcuno che non ammette la priorità della sopravvivenza sugli altri fini e valori. Che cosa ci vuole dire costui, che anche andare a correre è importante? Che è tanto bello per i bambini giocare insieme nel parco? Che le lezioni in presenza sono più coinvolgenti di quelle telematiche? Che un aperitivo in compagnia è una gioia della vita? Sono cose che sappiamo tutti, ma quel che lui sembra non vedere è che non morire è più importante. Non morire. E non rischiare di morire. Non morire, non rischiare di morire… e non rischiare di far morire gli altri. Questo è ciò che è più importante. Questa è la cosa che va assicurata ad ogni costo, cioè anche al costo di rinunciare a quelle altre cose che pure hanno un valore. Tanto più che si tratta di rinunciarvi solo per un po’: giusto il tempo di sconfiggere il virus. Di sconfiggere il virus… e di ridurre il rischio di una seconda ondata. E poi di predisporre delle misure che riducano in generale il rischio di trovarci tra un anno o due in una situazione come questa a causa di un altro virus. Naturalmente – ad un certo punto questa precisazione a margine arriva sempre – non è che la quarantena stretta possa continuare ancora a lungo: l’economia deve pur ripartire.

Questa nuova evidenza, che l’economia debba pur ripartire, ha trovato chi la contesta: la pandemia sarebbe l’occasione per far fronte comune contro la logica del capitale, portare il sistema allo stallo, farlo cadere e a quel punto edificarne finalmente uno giusto. Io non condivido questa posizione, ma anche a me interessa non dare troppo rapidamente per scontata quella nuova evidenza. Non dandola per scontata ci si imbatte facilmente in una sua difesa davvero singolare: l’economia deve ripartire perché anche il ripartire dell’economia è una condizione di sopravvivenza. Sembra quasi che, per giustificare delle misure che riguardano tutti, il confinamento o la riapertura del processo produttivo, vi sia un solo valore cui ci si possa appellare, cioè la salvaguardia della vita, il diritto alla vita. Conservare la vita è dunque l’unica cosa che per noi conta nella vita? Oppure è l’unico valore su cui è certo che ci sia consenso? Ma, quale che sia la nostra risposta, non diamo prova in entrambi i casi di avere un vocabolario molto povero per nominare ciò che vale e forse anche ciò di cui la nostra anima ha bisogno?

Ipotizziamo per un momento che qualcuno, chiedendo se davvero la conservazione della vita sia l’unica cosa che conti nella vita, voglia suggerire che non è così perché, ad esempio, conta anche tramandare il sapere. Ebbene, il difensore della conservazione della vita potrebbe rispondere che tramandare il sapere è certamente una delle cose apprezzabili che si possono fare nella vita, ma, ovviamente, a patto che tale vita sia stata conservata. Conservare la vita è la cosa importante per tutti, ma poi la vita salvaguardata potrà essere spesa da ciascuno assecondando le sue preferenze più varie e dunque facendo l’una o l’altra delle tante cose apprezzabili e più o meno apprezzate: tramandare il sapere, cercare il sapere, creare opere d’arte, renderle fruibili ecc. Ecco dunque che chi difende la conservazione della vita non è obbligato a escludere nessun altro valore, semplicemente lo ammette come l’oggetto di una preferenza, che ha valore solo nella misura in cui qualcuno lo apprezza.

La mia obiezione è che tutte queste belle possibilità che sarebbero aperte alle preferenze dei singoli individui si mantengono aperte solo se sono socialmente coltivate: gli individui possono “scegliere” di dedicare la loro vita conservata alla ricerca del sapere, solo se esistono istituzioni (biblioteche, laboratori, università, centri di ricerca) che tale ricerca rendono possibile; lo stesso, mutatis mutandis, per chi vuole scegliere la trasmissione del sapere o il rendere fruibili le opere d’arte. Ma se queste possibilità vanno socialmente coltivate e questo significa fondare, conservare, sviluppare istituzioni e rendere possibili contesti, allora, il fine politico non può essere solo la conservazione della vita. A questo punto, il mio interlocutore potrebbe ancora ribattere che la conservazione della vita del maggior numero possibile di persone, sebbene non sia l’unico fine della politica e dell’agire collettivo, è comunque il più alto, cioè quello che, in caso di conflitto tra valori, deve essere fatto prevalere. Se lo facesse, che cosa potrei dirgli?

In questo tipo di discussioni in cui si vorrebbe duellare a suon di argomenti, bisogna saper riconoscere il momento in cui è necessario cambiare i termini del problema per non perdere l’ancoramento nell’esperienza. Ora siamo arrivati a quel punto. Ragionare ancora nei termini di una pluralità di fini in cui uno è supposto pesare più degli altri, farlo ad esempio per obiettare che forse la riunione di tutti gli altri fini potrebbe fornire un caso in cui si dovrebbe ammettere che il peso del primo sia effettivamente superato, significherebbe solo distogliere l’attenzione dalla cosa più importante. Il fatto è che i fini, a differenza degli scopi, non sono originariamente isolati e dunque non si possono commisurare e contrapporre come se lo fossero. Mentre sappiamo bene cosa può significare perseguire lo scopo di dedicare il sabato al tennis e dunque possiamo contrapporgli un altro scopo altrettanto chiaro, come dedicare quel tempo a parlare con un amico, non abbiamo affatto altrettanto chiaro cosa concretamente significhi sul piano pratico privilegiare la conservazione della vita del maggior numero di persone rispetto all’impegnarsi nella ricerca del sapere. In realtà, ciascuno di questi fini si traduce in pratiche sociali la cui forma tiene in qualche modo in conto anche gli altri fini e gli altri valori. Le pratiche in cui si traduce socialmente la cura per la conservazione della vita sono in realtà pratiche in cui quel fine si esprime sullo sfondo di tutti gli altri e non isolatamente. Nel complesso delle forme dell’agire che plasmano le azioni e le condotte dei singoli, e che non sono foggiate dai singoli, bensì sono socialmente intessute, si esprime sempre il complesso dei valori di quella società. E questo non va inteso nel senso che in ciascuna forma dell’agire si esprima uno e un solo valore:  i valori sono articolati tra loro e per questo lo sono anche quelle forme. L’idea stessa di conflitto tra i valori, che cattura qualcosa di ben reale, come vedremo, va ridefinita a questa altezza, cioè come un conflitto nello spazio di un’articolazione e non come uno scontro tra elementi isolati. Questo spazio di articolazione, lo si noti a margine e rimandando ad un’altra occasione alcune importanti precisazioni, è la comprensione pratica del bene e del giusto, che caratterizza una società.

Avendo evocato, seppure solo a grandi linee, questa prospettiva più profonda riguardante il complesso delle finalità su cui ci orientiamo nella vita, ora posso tornare alle astrazioni, senza correre il rischio che siano prese troppo sul serio. Intendo usarle per far cogliere un punto importante. Proviamo dunque a immaginare a che cosa potrebbe somigliare un modello di vita sociale in cui la conservazione della vita del maggior numero possibile di individui fosse un fine che si possa e si debba perseguire prima di preoccuparsi degli altri. Questa società immaginaria investirebbe al massimo sulla sanità e lascerebbe spazio alla produzione solo per quel tanto che fosse necessaria per conservare in vita i suoi membri, compresi quelli che si occupano di curare gli altri. Ovviamente, investirebbe pure sulla ricerca del sapere, ma solo del sapere necessario a migliorare la sanità, di quello necessario a rendere più efficiente quella specifica produzione e, infine, del sapere necessario a migliorare la ricerca degli altri due saperi. Solo una volta garantito questo modo, complesso al minimo, di perseguire l’unico fine della conservazione della vita per il maggior numero di persone, questa società farebbe spazio ad eventuali altri fini, come la coltivazione della letteratura o l’esposizione delle opere d’arte, ma lo farebbe sempre rischiando di dover ammettere che sarebbe meglio disinvestire da questi settori per rendere la sanità ancora più efficiente. Ora, le società che conosciamo sono tutte piuttosto lontane da questo modello. Come spiegare questo fatto? Se la superiorità del valore della conservazione della vita è così evidente come qualcuno pretende, allora non resta che ammettere che le nostre società sono più o meno irrazionali quanto più o meno si allontanano da quel modello. L’alternativa è ammettere che le nostre società riconoscono anche altri fini e valori e che è una certa articolazione complessiva di tali fini e valori quella che si esprime nel modo in cui tali società sono regolate. Anche là dove si volesse dare un maggior privilegio alla conservazione della vita del maggior numero di persone, non si avrebbe a che fare con la contrapposizione di un fine a altri fini e men che meno con un calcolo dei pesi rispettivi di alcuni immaginari “corpi valoriali” indipendenti. Piuttosto, si avrebbe a che fare con la più alta opera della ragion pratica: la ricerca di una nuova, e auspicabilmente migliore, articolazione del complesso di quei fini e valori. Si avrebbe a che fare con il tentativo di delineare una nuova comprensione sociale del bene e del giusto.

In una qualche comprensione sociale del bene e del giusto siamo già sempre immersi. L’opera della ragion pratica non ci è estranea: non è qualcosa che vada scoperto, si tratta piuttosto di riconoscerla intorno a noi e nel passato che ereditiamo. Ma si tratta anche di partecipare attivamente a quell’opera – soprattutto quando un evento epocale la rende inevitabile. Anche sotto l’ipotesi che la nostra risposta a un cataclisma naturale come la pandemia voglia essere solo una sospensione momentanea delle forme di vita note, occorre comunque che la ragion pratica sia lucida nel determinare quel complesso di atteggiamenti e disposizioni meno apparenti che le facevano funzionare e che non dovrebbero smettere di venir coltivati affinché quelle forme possano essere eventualmente ristabilite. Se ad esempio, si sgretolano le condizioni di un atteggiamento di apertura fiduciosa verso gli altri, riaprire i parchi non significherà più aprire spazi comuni. Ma l’importanza della ragion pratica è ancora più evidente se invece si ritiene di dover rispondere al cataclisma con una trasformazione, cioè tessendo forme nuove – magari perché si intravede un rapporto tra quello stesso cataclisma e le forme di vita precedenti. In questo caso, la ragion pratica dovrebbe essere massimamente, e in qualche misura è per definizione, coinvolta: ne va infatti di ciò di cui solo si cura, della qualità della vita. Le vecchie forme promettevano una certa qualità etica della vita, aspiravano cioè a regolarla sulla base di una buona comprensione del bene e del giusto, ma, per ipotesi e sempre più anche nei fatti, queste forme ci appaiono ora non più proponibili così com’erano. Riprendere l’opera della ragion pratica significa allora interrogarsi sulla comprensione del bene e del giusto, cioè sull’articolazione dei fini, dei valori e degli ideali, che deve ispirare le nuove forme d’ordine della vita comune.

***

È proprio questa rinnovata interrogazione sulle forme del bene quella in cui dovrebbe svilupparsi la domanda che ho evocato all’inizio e su cui ora posso tornare in maniera più precisa. Chiedevo quale forma di vita stiamo salvando e con ciò intendevo chiedere che forma ha la vita che stiamo salvando. L’esistere, che per una pietra è un giacere lì dov’è, per un essere vivente è vivere. Qualcuno dice che, nel momento attuale, il nostro vivere è piuttosto solo un sopravvivere o un salvare la vita. Vuole suggerire che è un vivere ridotto al mero fatto di vivere, un vivere senza qualificazioni, un vivere in cui le forme siano al grado zero. In realtà, quella appena schizzata non è una possibilità reale e dunque men che meno una realtà effettuale. Anche il nostro attuale vivere è qualificato e foggiato da forme che racchiudono una qualche comprensione e interpretazione del bene. L’invito implicito nella mia domanda è un invito a dar parola a questa comprensione.

Dobbiamo nominare gli ideali e le forme del bene che ispirano e qualificano il nostro attuale modo di vivere. Se ci chiediamo perché accettiamo di confinarci in casa o, più profondamente, perché ci autoconfiniamo in casa, ci esponiamo a risposte troppo semplici, risposte che suppongono che la domanda riguardi lo scopo: ci autoconfiniamo per non sottoporci e non sottoporre gli altri al rischio del contagio. E se dagli scopi ci eleviamo a interrogare i fini, ecco che, in risposta a quel perché, arriva il riferimento alla conservazione della vita. Ma c’è qualcosa di ancora più alto dei fini e che talvolta interroghiamo chiedendo nuovamente perché: sono gli ideali in nome dei quali perseguiamo quei fini. È questa dunque la domanda che sono arrivato a scoprire decisiva per abitare questo presente che è già il futuro: in nome di cosa ci impegniamo a conservare la vita, la nostra, l’altrui, quella del maggior numero possibile di persone? Sto proponendo di non trattare più il diritto alla vita come la risposta, bensì di spingere più a fondo la nostra esplorazione del bene e chiederci: in nome di cosa ci appelliamo a tale diritto?

Questa domanda ci interpella tutti, ma non si frantuma in un pulviscolo di domande individuali, cioè di domande in cui ciascuno si chiede in nome di cosa cerca di tenersi in vita. Tali domande individuali hanno un’importanza, ma non raccolgono affatto tutto il senso della domanda che sto delucidando. Questa domanda infatti riguarda la vita possibile per aprire, o mantenere aperta, la possibilità della quale facciamo quel che facciamo. E se talvolta, spesso, questa vita possibile la si cerca come una possibilità anche per se stessi, altre volte no, ma solo affinché sia possibile almeno per altri.

È certamente una domanda che guarda al presente assumendosi la responsabilità del futuro, ma non è affatto una domanda dimentica del passato. Di un bambino, ci si augura che viva, ma si spera che abbia una vita consistente, significativa, degna e onorevole, una vita in cui abbia la possibilità di coltivare le più varie forme del bene e in cui ne coltivi effettivamente qualcuna. Ebbene, la memoria del passato e la riconoscenza verso le generazioni precedenti sono una di queste forme del bene che devono qualificare lo spazio di quella vita possibile. Detto altrimenti: onorando ora la memoria del passato e essendo ora riconoscenti verso le generazioni che ci hanno preceduto stiamo coltivando la possibilità che lo si possa fare anche in futuro. E se coltiviamo questa possibilità, lo facciamo perché riteniamo che onorare quella memoria e portare quella riconoscenza facciano parte di ciò che dà consistenza e significato alla vita. Fanno parte delle cose per continuare a fare le quali stiamo attenti a conservare la vita. Fanno parte delle cose in nome delle quali stiamo attenti a salvare la vita. Cos’altro ne fa parte?

I medici rischiano la loro vita per salvare la nostra. In cambio, si dice oggi, dobbiamo cercare perlomeno di essere responsabili, così non faremo aumentare i rischi che corrono. Ora, sebbene sia ovviamente giusto realizzare questo tipo di comportamento responsabile, cioè attenersi alle misure prescritte, in questo ragionamento c’è anche qualcosa di sbagliato: fa pensare che noialtri entriamo in scena solo in seconda battuta, quando si tratta di rendere qualcosa, almeno in termini simbolici, ai medici e al loro coraggio e generosità. In realtà, la nostra responsabilità comincia ben prima: non siamo forse noi, non solo noialtri, ma noi tutti, a chiedere ai medici di rischiare la loro vita per salvare la nostra? La sequenza non comincia con un loro atto gratuito, ma con una nostra richiesta. Ed è qui che si gioca la nostra responsabilità fondamentale, quella che ci riguarda come collettività. Solo riconoscendo questa responsabilità possiamo onorare in maniera degna i medici. Riconoscere tale responsabilità significa ovviamente anche chiedersi se le strutture sanitarie che abbiamo loro fornito consentono loro di non rischiare più del dovuto, cioè anche solo appena più di quanto sia inevitabile per chi decide di dedicarsi alla cura e non a tutt’altro. Ma, se questa è la prima responsabilità che, non solo i politici, ma noi tutti, in quanto cittadini, abbiamo verso i medici, ce n’è anche un’altra che abbiamo in quanto membri della nostra società e non è meno importante, sebbene sia meno visibile: dobbiamo avere una risposta credibile, cioè seria, meditata, a chi domanda in nome di quale vita possibile chiediamo loro di fare quello che fanno, tra cui anche rischiare la vita per salvare quella dei loro pazienti. Chiediamo ai medici che non si chiedano se la vita in pericolo che hanno di fronte sia una vita degna di essere salvata: chiediamo loro di salvarla e basta. Ma non lo facciamo perché pensiamo che la cosa che conta è che ci sia vita purchessia, lo facciamo all’interno di un progetto ben più ambizioso: lo facciamo in nome di una vita possibile in cui la fragilità di alcuni non sia una ragione per disinteressarsi di loro. Ma, naturalmente, in questa vita possibile la cui possibilità coltiviamo e difendiamo, l’attenzione e la cura per la fragilità non sono l’unica forma del bene, l’unico ideale realizzando il quale quella vita si riveli degna.

***

La storia è stata questa: ad un certo momento, si è cominciato a ipotizzare di non restituire rapidamente ai bambini la possibilità di tornare a scuola o all’asilo, di rincontrare gli amici e i coetanei, di interagire in quei modi che sono depositati nelle nostre memorie personali, ma anche nelle nostre letterature, nelle nostre pitture. Mi è mancata l’aria. Quello che molti e molte hanno provato pensando alle dimensioni più tragiche della pandemia, che altri e altre hanno provato sentendo le mura di casa chiuderglisi addosso, io l’ho provato in questo modo. Ho realizzato che non in una fase momentanea di sospensione ci troviamo, bensì in un momento in cui c’è da pensare seriamente a quel che facciamo, a quel che stiamo per fare e ai suoi effetti. O meglio al suo significato. È davvero questo il modello di vita che proponiamo a noi stessi come buono? Un modello che dimostra così tanta disattenzione e incuria verso i bambini? Nella forma di vita che rinuncia disinvolta a che i bambini possano fare l’esperienza concreta di tutti quegli scambi e momenti cui noialtri non smettiamo di ripensare con malinconia, e di cui dunque conosciamo il valore, in una simile forma di vita si esprime una comprensione del bene in cui non mi riconosco.

La domanda che ho cerato di chiarire nelle pagine precedenti è una domanda di cui io ho sentito la necessità esistenziale nella piccola esperienza che ho appena raccontato, quando ho sentito l’inaccettabilità dell’ipotesi di togliere ai bambini qualcosa di cui so quanto valore abbia nel dare sapore e consistenza alla vita. E in effetti esiste un nesso segreto tra quella domanda che spazia sull’orizzonte più ampio, cioè quello aperto dalla domanda sul bene e sul giusto, e delle esperienze che nella loro concretezza sono molto particolari. È un nesso segreto perché vi si nasconde il motivo per cui l’articolazione della nostra comprensione del bene è sempre anche un conflitto tra comprensioni del bene, che non sono però le semplici comprensioni che ciascuno ha del suo proprio bene individuale.

La domanda che ho cercato di rendere riconoscibile libera la mente e trasforma la collera in energia creativa e in responsabilità. Non ha niente a che vedere con l’evasione immaginaria, che dà solo soddisfazioni immaginarie. Ha piuttosto a che fare con il radicarsi nell’esperienza, ma affinché questa rischiari e sia rischiarata dalla questione del bene e del giusto. Non è innanzitutto una deliberazione sugli scopi da perseguire, né solo una domanda sui fini che orientano la propria vita. È una domanda sugli ideali socialmente coltivati e articolati in nome dei quali i fini e le finalità sono capaci di provocare il nostro impegno. Ora, affrontare questa domanda spetta alla ragion pratica, la quale lo fa innanzitutto attraverso la più alta attività politica, cioè la deliberazione collettiva che, in ultima analisi, stabilisce le leggi che aspirano ad essere giuste, cioè a rispondere alla più profonda idea di giustizia. Tuttavia, quest’attività politica, la deliberazione collettiva, non esaurisce l’opera attraverso cui la ragion pratica affronta la questione del giusto e del bene.

L’orizzonte spirituale sullo sfondo del quale soltanto è possibile tentare di articolare il bene e il giusto è custodito nei costumi e nell’ordine simbolico. E alla tessitura trasformativa di questi si partecipa in modi molto meno definiti di quelli attraverso cui si partecipa alla deliberazione collettiva. Tra questi altri modi della ragion pratica, ci sono invenzioni pratiche, cioè poi invenzioni di pratiche tramandabili e di contesti che generano nuove disposizioni e habitus, ma soprattutto c’è un’opera di mediazione simbolica dell’esperienza. È il tentativo di trovare parole credibili in risposta alla domanda che ho cercato di chiarire. Parole credibili per nominare le qualità e le forme del bene che vanno coltivate già ora perché possano appartenere anche alla vita futura.

Sennonché, quel che rende credibile una parola è il suo essere vivificata e quasi riforgiata dall’esperienza. Per questo dicevo che la domanda che ho posto non è un’evasione dalle esperienze che facciamo durante il confinamento. Piuttosto porta a interrogarle per dare voce a quelle forme del bene che riscopriamo con nuova intensità o perché ne viviamo l’assenza (come è ad esempio il caso della libertà di movimento e di incontro o della discussione politica vis-à-vis o, ancora, della comunicazione tacita resa possibile dalla compresenza dei corpi, ad esempio in una classe scolastica) o perché riescono ancora ad essere presenti nonostante tutto (come è ad esempio il caso di quei pochi legami di amicizia che non abbiamo lasciato scadere a incontri telefonici una volta ogni tanto o di quelle pratiche a cui siamo riusciti a riservare comunque del tempo, come è per me la pratica della filosofia) oppure infine perché ne facciamo esperienza quasi per la prima volta proprio ora (come è ad esempio il caso delle strade meno trafficate e rumorose che fanno sognare di poterle riscoprire camminando). L’articolazione di queste forme del bene si produce in uno spazio che non è necessariamente armonico, anzi, non smette di essere attraversato da conflitti. Nominare finemente ciò che si tratterà di articolare e collegare è il primo passo per fare sì che quell’articolazione che in qualche modo si imporrà non sia un’insopportabile prova di cecità e disattenzione.

Il tempo del confinamento non è il tempo del mero vivere, del vivere senz’altre qualificazioni che non siano la sua salvaguardia, non è cioè il tempo della sopravvivenza. È un tempo in cui alcune cose accadono e altre vengono meno, ma dobbiamo nominare finemente sia le une sia le altre per scoprire o riscoprire le forme del bene cui non siamo disposti a rinunciare nel mondo che verrà. E che sta già venendo.

 

Parigi, 27 aprile 2020

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)