di Alessandro Campi
Sono passati ottant’anni dal 10 giugno 1940 e ancora ci si chiede per quali ragioni Mussolini, dopo aver praticato la “non belligeranza” e lasciato credere di volersi porre come mediatore tra i combattenti, decise l’intervento dell’Italia in una guerra per la quale essa era impreparata e che avrebbe poi perso rovinosamente, con strascichi politici e lacerazioni a livello di memoria collettiva che sono arrivati praticamente sino ai giorni nostri.
Sui motivi (complessi e contraddittori) di quell’annuncio,
di Alessandro Campi

Sono passati ottant’anni dal 10 giugno 1940 e ancora ci si chiede per quali ragioni Mussolini, dopo aver praticato la “non belligeranza” e lasciato credere di volersi porre come mediatore tra i combattenti, decise l’intervento dell’Italia in una guerra per la quale essa era impreparata e che avrebbe poi perso rovinosamente, con strascichi politici e lacerazioni a livello di memoria collettiva che sono arrivati praticamente sino ai giorni nostri.

Sui motivi (complessi e contraddittori) di quell’annuncio, dato trionfalmente ai romani alle 18 dal balcone di Palazzo Venezia e trasmesso per radio al resto degli italiani, s’è versato molto inchiostro. Presentata nel suo discorso come uno scontro epocale (“la lotta tra due secoli e due idee”), la dichiarazione di guerra che qualche ora prima Galeazzo Ciano aveva consegnato agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna nascondeva in realtà, come molti storici hanno sostenuto, un disegno al tempo stesso più modesto (sul lato ideologico-militare) e più ambizioso (sul lato politico).

Quella che il capo del fascismo voleva era a bene vedere una guerra limitata o a bassa intensità, tanto da aver ordinato al generale Pietro Badoglio, a prendere per buoni i ricordi di quest’ultimo, di evitare attacchi nei primi giorni. Con la Francia già ridotta allo stremo dai tedeschi (da qui quella che sarebbe stata definita l’infamia della “pugnalata alle spalle”) Mussolini sperava, con l’ingresso nel conflitto dell’Italia, in una rapida resa dell’Inghilterra e nella richiesta da parte degli alleati di immediate trattative di pace. Eloquenti, in questa chiave, le parole pseudo-profetiche da lui rivolte al generale Ubaldo Soddu: “Le guerre non si fanno quando si è pronti: si fanno quando si debbono fare… La guerra a ottobre è finita”.

Doveva dunque trattarsi nei suoi piani di un conflitto breve e vittorioso, da condurre per quanto possibile in modo autonomo dalla Germania (la cosiddetta “guerra parallela” che l’Italia effettivamente intraprese, ma con esisti immediatamente disastrosi, nei Balcani). Il che gli avrebbe consentito, non solo di realizzare molto lucro con poco danno sul piano delle rivendicazioni territoriali e delle ambizioni strategiche, in particolare nell’area del Mediterraneo allargato, ma anche di vestire – stante il timore verso Hitler dell’intera diplomazia europea – i panni dell’“organizzatore della pace”: quasi una replica del copione già messo in scena due anni prima con gli accordi di Monaco.

Ma è difficile credere che si possa volere una guerra solo sulla base di un ragionamento opportunistico, peraltro destinato a rivelarsi del tutto miope. Nella decisione di Mussolini, un realista cinico che spesso si abbandonava a vagheggiamenti irrealistici nel segno della megalomania, non può essere sottovalutato il peso svolto dall’alleanza/rivalità con la Germania hitleriana e dall’ideologia. Dino Grandi nelle sue memorie ha imputato l’entrata in guerra dell’Italia, dopo un anno di tergiversazioni, alla paura della Germania: la scelta della neutralità dopo la firma del “patto d’acciaio” avrebbe esposto l’Italia, accusata di tradimento, ad un destino tragico come quello della Polonia. La verità è che Mussolini temeva Hitler nella misura in cui ne invidiava la forza politico-militare e i successi. Quello che decide la guerra, pensando di poterla personalmente condurre meglio dei suoi vertici militari, è un capo politico vittima del suo egocentrismo e della sua ambizione: è l’inventore di una formula politica rivoluzionaria che non si rassegna all’idea di dover lasciare ad un suo emulo dichiarato, peraltro un incolto fanatico, il palcoscenico della storia.

C’è poi un elemento di necessità, o di fatalismo storico, nella scelta mussoliniana per la guerra. Chi cerca l’essenza ideologica del fascismo lo trova, più che nello spirito di superiorità razziale, nel revanchismo nazionalistico o nella statolatria, come spesso si dice, nel “maschilitarismo”: nell’unione di virilismo e spirito marziale, di cameratismo combattente e vocazione all’eroismo, di arditismo e spirito competitivo. Un’eredità antropologica del Primo conflitto mondiale a partire dalla quale il regime aveva poi costruito la sua pedagogia totalitaria finalizzata a creare un italiano avvezzo alla lotta fisica e allo sprezzo delle mollezze borghesi. La guerra al fianco dei nazisti avrebbe dovuto certificare, tra le altre cose, proprio la nascita dell’“uomo nuovo” fascista. Come scritto da Ciano nel suo diario, pochi giorni prima della fatale decisione, Mussolini “non vuole ottenere questo o quello: vuole la guerra”. La guerra in sé, come prova del carattere collettivo, come rivolgimento rivoluzionario degli equilibri mondiali e come catarsi spirituale.

Finì nel modo tragico che sappiamo.

  • Apparso su  “Il Messaggero” (Roma) del 10 giugno 2020

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