di Alessandro Campi*

michele-emiliano-pdDagli Stati Uniti alla Puglia il percorso, anche dal punto di vista politico, è particolarmente lungo. Ma chiedersi cos’abbiano in comune Donald J. Trump e Michele Emiliano non è solo una provocazione, una battuta o un gioco. Può essere uno spunto interessante, anche se eccentrico e un tantino tortuoso, per capire come sono cambiati i partiti dopo il tramonto irreversibile delle grandi organizzazioni di massa che hanno segnato la storia politica del secondo Novecento. E quali effetti questi cambiamenti stanno producendo nelle democrazie contemporanee.

Se Trump, come altri miliardari tentati dalla politica prima di lui, si fosse candidato da indipendente nella corsa per la presidenza avrebbe fatto la fine, ad esempio, di Ross Perot nel 1992 e nel 1996. Sarebbe stato il terzo incomodo, destinato fatalmente alla sconfitta, tra i due grandi partiti storici. Senza appartenere al campo conservatore in nessuna delle sue sfumature o tradizioni intellettuali, egli si è dunque abilmente incistato all’interno del Partito repubblicano sbaragliandone i candidati ufficiali uno dopo l’altro grazie ad un mix di senso dello spettacolo, demagogia, battute sessiste, saggezza da uomo della strada e irriverenza ideologica all’insegna del politicamente scorretto. Insomma, Trump ha utilizzato i repubblicani come un taxi, portando il suo clan (a cominciare da quello famigliare) alla guida di quel grande paese.

Michele Emiliano, attuale governatore della Puglia, anche se ha ufficialmente avanzato la sua candidatura alla segreteria nazionale del Partito democratico con l’idea di succedere a Matteo Renzi, non sembra avere le titaniche aspirazioni né di quest’ultimo né del nuovo inquilino della Casa Bianca. Accusarlo di voler utilizzare il partito del quale è un importante esponente in modo meramente strumentale, solo per soddisfare le sue (legittime) ambizioni politiche, rischia di suonare sgarbato e ingeneroso. La sua fede progressista è sicuramente superiore a quella conservatrice di Trump. E la sua lealtà al Pd è certamente maggiore di quella che il tycoon americano riserva in cuor suo al Grand Old Party. Ma non può sfuggire una facile analogia: entrambi – l’americano e il pugliese – sono, fatte tutte le debite proporzioni, espressione della medesima deriva in senso feudale e anarchico che sembra caratterizzare la politica odierna e dunque anche i partiti.

La debolezza strutturale di questi ultimi è il fenomeno che colpisce ormai da anni gli osservatori. E proprio il fatto di essere sempre più delegittimati agli occhi dell’opinione pubblica, sempre meno capaci di assolvere le funzioni che storicamente li hanno fatti nascere, sempre più inconsistenti sul piano organizzativo e ormai quasi del tutto privi di una precisa caratterizzazione ideologica, ha finito per favorire in molte democrazie l’ascesa – contro i partiti e dentro i partiti – di outsider e leader eccentrici che fanno del pragmatismo, del “parlare chiaro” ai cittadini e dell’insofferenza alle regole e convenzioni della politica ordinaria il loro punto di forza agli occhi dei potenziali seguaci.

Parliamo di figure che tendono a scavalcare o superare i partiti cosiddetti storici o tradizionali con l’idea di fondare movimenti personali che ambiscono a presentarsi come radicalmente alternativi a quelli esistenti. Ѐ quel che ha fatto a suo tempo Berlusconi con Forza Italia in polemica con il “teatrino della politica” della Prima repubblica; o che in anni recenti ha fatto Grillo fondando il M5S con l’idea di abbattere la Casta e il Sistema. Ma è ciò che sta facendo in questo momento, su scala più ridotta, Emmanuel Macron nella battaglia per l’Eliseo in Francia, dove ha scelto di correre come indipendente proprio per sfruttare il risentimento anti-partitico di una grossa fetta dell’elettorato.

L’altra strada consiste invece nell’utilizzare i partiti come scorciatoie per il potere o come contenitori formali nei quali insediarsi per condurre battaglie e perseguire obiettivi che spesso nulla hanno a che vedere con i valori e i programmi che essi ufficialmente sbandierano. Il fatto è che i partiti sono strutture ormai talmente gelatinose e permeabili, giunti a un tale grado di disarticolazione interna anche quando sembrano guidati da un capo assoluto, talmente condizionati dai meccanismi della comunicazione e della ricerca del consenso giorno per giorno, da permettere facilmente ad un leader volitivo o a un gruppo di potere ben organizzato di insediarsi al loro interno e di prendere il controllo. Direttamente al centro, ma soprattutto in periferia e a livello territoriale, dove i vertici nazionali dei singoli partiti non hanno più la capacità di indirizzo di un tempo. Il che appunto spiega perché, da strutture altamente gerarchiche e centralizzate, essi si siano trasformati in strutture semi-feudali, nelle quali è divenuto sempre più forte il potere di condizionamento dei “signori locali” (appunto, alla Emiliano). Personaggi che spesso si muovono in assoluta autonomia politica rispetto al loro stesso partito, e che altrettanto spesso hanno una coloritura o etichetta politica pur potendo averne tranquillamente un’altra, tanto sono capaci di gestire il potere e il consenso in modo trasversale e senza vincoli di natura ideologica, in una chiave soltanto personalistica.

Così come è sempre più forte la capacità d’influenza che all’interno dei partiti (sempre e soprattutto a livello territoriale, dove spesso non arrivano i riflettori della grande stampa d’informazione) hanno oggi le consorterie affaristiche, i clan amicali e famigliari, le reti professionali e i potentati politico-burocratici. Ѐ questa in fondo la malattia che sta erodendo lentamente il Pd, diviso tra una leadership nazionale accentratrice e tendenzialmente carismatica e una struttura periferica dove a dettare la linea sono invece capipopolo, signori delle tessere, cacicchi o governatori di lungo corso che spesso non nascondo le loro ambizioni a scalare il potere. Ed è sempre in questa cornice degenerata, che getta più di un’ombra sul futuro della democrazia, che si potrebbe far rientrare anche la vicenda, ormai tragicomica, dell’amministrazione capitolina. Dove a detta di molti, a guardare le cose con attenzione, non ha vinto il M5S, ma una “corte dei miracoli” (Berdini dixit) che ha utilizzato questo partito esattamente come si usa un taxi.

* Editoriale apparso su “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 15 febbraio 2017.

 

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