di Alessandro Campi

1433669776722.jpg--grillo__salvini__renzi__berlusconiIndizi crescenti, che rischiano di diventare una prova schiacciante, fanno temere che la prossima campagna elettorale possa essere la più brutta della nostra storia recente. Oltre che la più inutile, se è vero quel che molti, tra osservatori ed esponenti del Palazzo, pronosticano: vale a dire che all’indomani del voto non ci saranno né un vincitore effettivo né una maggioranza parlamentare minimamente coesa. Il che aprirebbe la strada, inevitabilmente, a soluzioni di ripiego e per definizione precarie: dal governo di minoranza a quello del presidente, dalla grande coalizione all’ennesimo esecutivo tecnico. Senza contare la possibilità reale, nel caso di uno stallo parlamentare perdurante, di dover tornare al voto dopo pochi mesi.

Di battaglie elettorali segnate da insulti e polemiche, persino da tentativi di mettere fuori gioco l’avversario con mezzi poco ortodossi, ne abbiano conosciute diverse nel passato. L’intera Seconda Repubblica, segnata dalla divisione profonda tra berlusconiani e antiberlusconiani, è stata caratterizzata da una forte polarizzazione a livello di propaganda e di opinione pubblica e da un clima di virulenta contrapposizione ideologica. Dal 1994 in avanti lo scontro tra partiti e coalizioni ha assunto spesso i toni della crociata. Ma tra un’invettiva e un’accusa sanguinosa, tra una rissa televisiva e una palese bugia, appariva comunque chiaro quel che differenziava i contendenti sul piano dei programmi, degli obiettivi e delle potenziali decisioni una volta conquistato il governo del Paese: dall’economia alle politiche sociali, dai temi istituzionali a quelli della giustizia, dalle tasse alla politica estera.

Quella che oggi abbiamo dinnanzi è invece una dialettica tra partiti che si sta sempre più impoverendo, semplificando e banalizzando. I temi di discussioni delle prossime elezioni – come si evince dalla discussione e dalla cronaca politica delle ultime settimane – rischiano infatti di essere non la disoccupazione giovanile, la scuola, l’Europa, la riduzione della spesa pubblica, il controllo sulle banche o il rilancio delle imprese, ma il ritorno del fascismo, l’uso delle fake news e l’invasione dell’Italia ad opera di orde di immigrati clandestini.

Intendiamoci, il successo tra i giovani di mitologie e simbolismi ispirati al fascismo, la manipolazione delle informazioni con l’obiettivo di influenzare la politica e lo stesso gioco democratico e la gestione dei flussi di popolazione dall’Africa verso l’Europa sono tre temi reali e importanti. Il problema è il modo strumentale, polemico e drammatizzante con cui essi vengono presentati e affrontati, sino a farne le emergenze o minacce assolute rispetto alle quali gli italiani dovranno decidere il giorno del voto da che parte stare.

L’impressione è che i partiti, a pochi mesi dall’appuntamento cruciale con le urne, stiano in realtà vivendo un serio e preoccupante vuoto di idee e di capacità propositiva. Rispetto all’acutezza della crisi economica e sociale nella quale l’Italia è ancora immersa nessuno di essi sembra avere ricette o soluzioni razionali da proporre all’attenzione dei cittadini. Si preferisce perciò puntare sulle emozioni, sull’istintività e sulla facile demagogia. C’è sicuramente un problema di gruppi dirigenti: obsoleti, autoreferenziali, spesso semplicemente dilettanteschi nel loro modo di affrontare i problemi. Forse agisce anche il convincimento che ci aspettano anni difficili, al limite dell’ingovernabilità, per cui meglio sarebbe starsene alla finestra invece di assumersi responsabilità di governo. Ma probabilmente non aiuta, più prosaicamente, la legge elettorale che ci si è dati.

Prendiamo ad esempio gli eterogenei cartelli elettorali che si stanno creando a sinistra come a destra: non potendo contare sulla forza aggregante di leadership salde e riconosciute come tali, l’unico collante per tenere insieme forze e sigle sin troppo diverse tra di loro finiscono per essere le paure, gli allarmismi e i fantasmi ideologici che si è in grado di suscitare nei rispettivi elettorati. Per gli uni, sembra trattarsi dell’antifascismo militante. Per gli altri, dello spauracchio di un’immigrazione fuori controllo e, più in generale, dell’insicurezza collettiva.

Quanto al M5S, nonostante i tentativi per accreditarsi come una forza potenziale di governo, resta un movimento più a suo agio con l’opposizione, la protesta e la denuncia. Ciò che promette, giocando sul risentimento sociale e sulla disaffezione per la politica tradizionale di molti italiani, è lo scardinamento dell’attuale sistema di potere, ma non si riesce a capire in vista di quale alternativa realisticamente praticabile.

Se a tutto questo aggiungiamo poi l’ossessione della lotta contro le fake news, con i partiti che si accusano a vicenda di avvelenare i pozzi della discussione pubblica e di essere al servizio di potenze straniere, si capisce a quale miserando confronto elettorale stiamo per andare incontro.

Come impedire un simile scenario, che rischia di consegnare all’astensionismo ancora più italiani che nel recente passato? Serve probabilmente una scelta nel segno della responsabilità. Ѐ chiaro che nessun partito, in questa particolare contingenza, può offrire agli italiani ricette sicure per i loro problemi. Ma si possono comunque avanzare proposte e soluzioni che siano almeno credibili e ragionevolmente praticabili, tra le quali poter effettuare una scelta minimamente ponderata. In campagna elettorale fare promesse (non sempre realizzabili) è normale. Non è normale invece pensare di raggranellare voti giocando sulla frustrazione e sulle ansie degli elettori, o assecondandone i cattivi umori. Il gradimento di cui in questo momento gode l’esecutivo Gentiloni dovrebbe insegnare ai partiti, mentre si apprestano ad affilare le armi per lo scontro di primavera, che la serietà, il pragmatismo, quel minimo di riformismo che le finanze pubbliche ci consentono, la rinuncia ai toni forti, al velleitarismo e alle promesse impossibili è esattamente ciò di cui i cittadini sentono più il bisogno. Basterà mettere a frutto questa semplice lezione per avere un confronto elettorale che sia serio, civile e forse persino utile per l’Italia.

* Editoriale apparso su ‘Il Messaggero’ dell’11 dicembre 2017.

 

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