di Alessandro Campi
L’Italia è un Paese tre volte fragile. Per dimostrarlo si può partire da un episodio di cronaca: una nevicata largamente prevedibile visto che siamo in inverno, nemmeno particolarmente virulenta. Come può un banale evento meteorologico cogliere impreparato e mettere in ginocchio una nazione sviluppata? Possibile che dinnanzi ad un’emergenza anche minima non si riesca a reagire altrimenti che diffondendo bollettini allarmistici (dalla parte delle autorità pubbliche) e lanciando strali contro il governo ladro e la politica corrotta se per caso dieci centimetri di neve ci ostruiscono l’uscio di casa (dalla parte dei cittadini)?
di Alessandro Campi

eidon - 673172 Colosseo, Fori e Campidoglio sotto la neve - Colosseo, Fori e Campidoglio sotto la neveL’Italia è un Paese tre volte fragile. Per dimostrarlo si può partire da un episodio di cronaca: una nevicata largamente prevedibile visto che siamo in inverno, nemmeno particolarmente virulenta. Come può un banale evento meteorologico cogliere impreparato e mettere in ginocchio una nazione sviluppata? Possibile che dinnanzi ad un’emergenza anche minima non si riesca a reagire altrimenti che diffondendo bollettini allarmistici (dalla parte delle autorità pubbliche) e lanciando strali contro il governo ladro e la politica corrotta se per caso dieci centimetri di neve ci ostruiscono l’uscio di casa (dalla parte dei cittadini)? Nel tessuto della società italiana, nelle sue diverse articolazioni, qualcosa evidentemente non funziona.

C’è per cominciare una debolezza ormai cronica che riguarda la sfera decisionale e i nostri gruppi dirigenti a qualunque livello. Chiunque ricopra incarichi pubblici (di tipo tecnico-burocratico o politico-elettivo) dovrebbe sempre essere animato dal senso di responsabilità individuale e da una chiara visione dell’utile collettivo. Quando si occupano posizioni di potere (anche minimo) bisogna essere in grado di decidere e scegliere: assumendosene l’onere, sempre nel rispetto di leggi e procedure, e avendo come obiettivo ciò che più serve alla comunità dei cittadini. Vale per un ministro, per un funzionario regionale, per un assessore o per un qualunque dirigente della pubblica amministrazione. E’ questa la vera etica del servizio pubblico: agire con capacità (e tempestività) piuttosto che volersi mostrare onesti, incorruttibili e ligi ai regolamenti (magari senza nemmeno esserlo).

Ma è esattamente ciò che sovente sembra mancare ai nostri rappresentanti istituzionali e, più in generale, a coloro che pure dovrebbero professionalmente operare per l’interesse generale. Si tendono ormai a fuggire i doveri e le responsabilità connesse alla funzione o al rango. Prendiamo ad esempio il mantra che tutti recitano della cosiddetta prevenzione: in teoria dovrebbe significare muoversi per tempo, adottando tutte le possibili misure precauzionali, al fine di neutralizzare o ridurre le conseguenze negative di un certo evento. Nella traduzione malata che se ne dà oggi in Italia la prevenzione equivale invece a scaricarsi preventivamente da ogni competenza nel timore di doverla esercitare e di doverne poi rispondere: politicamente, dunque dinnanzi all’opinione pubblica, o peggio legalmente, magari di fronte a un qualche magistrato o tribunale. E’ dunque una rinuncia, documenti e protocolli alla mano, alle proprie responsabilità, che diventano sempre di qualcun altro che sta, formalmente, più in alto di noi.

Nel campo per così climatico-ambientale questa tendenza ha ormai assunto nel nostro Paese dimensioni tragico-grottesche: di ogni evento (pioggia, solleone o scossa di terremoto) si annuncia sempre il peggio per evitare di essere poi accusati d’aver sottovalutato un qualunque fattore di rischio. E poco importa se questa strategia allarmistica, quasi sempre smentita dagli eventi reali, comporta costi sociali ed economici spesso molto alti in termini di disagi alle famiglie, servizi interrotti e cali di produttività. Così come a nessuno importa l’effetto negativo e deprimente che fa sui cittadini lo scaricabarile tra istituzioni e apparati pubblici che puntualmente si verifica ad ogni accenno di crisi o di emergenza. Come se in questo Paese non esistessero più gerarchie amministrative o catene di comando politiche preventivamente definite.

Ma la fragilità italiana forse più grave è la seconda, quella per così dire oggettiva e materiale. Se una nevicata ordinaria, che non è dunque quella drammatica dell’inverno 1956-57 di cui si legge nei libri e che ancora si tramanda nei ricordi, manda in tilt il traffico ferroviario e costringe alla chiusura di scuole e uffici pubblici (anche solo per ragioni precauzionali) è perché evidentemente la nostra nervatura infrastrutturale e la nostra rete di servizi è antiquata, obsoleta e non all’altezza delle necessità di uno Stato moderno. L’ordinaria gestione della nostra vita pubblica riusciamo bene o male a garantirla. Ma alla minima forzatura o pressione essa si paralizza immediatamente. Ciò dipende evidentemente dagli scarsi investimenti in innovazione e dal ritardo tecnologico che l’Italia ha accumulato nel corso degli anni, soprattutto a paragone di altri Paesi europei suoi omologhi. Siamo ahimé un paese ‘vecchio’: sul piano demografico ma anche nella sua architettura tecnico-sociale.

C’è infine un terzo fattore di debolezza, più impalpabile, che ha a che vedere col livello emotivo degli italiani, con la loro struttura comportamentale. Si ha come l’impressione che come cittadini, soprattutto le nuove generazioni, non si sia più in grado di sopportare e affrontare anche il minimo disagio, senza che ciò provochi immediatamente ansia, malumore e un senso di paura latente. Muoversi nei meandri della psicologia collettiva è sempre difficile e ci si espone al rischio di osservazioni banali. Ma è come se la crescita anche in Italia, come negli altri Paesi europei, di un vasto e articolato apparato di protezione sociale, oltre a garantirci condizioni di vita certamente migliori rispetto al passato, avesse contestualmente stimolato il radicarsi di una mentalità assistenzialistica e parassitaria. Il benessere del welfare state, invece di produrre una visione attiva della cittadinanza, nel senso che più si riceve in termini di beni e servizi più si dovrebbe essere in grado di fare per sé e per la comunità, sembra aver generato una mentalità rinunciataria, lamentosa e deresponsabilizzante che è ormai diventata pervasiva. Una condizione di passività e di scarsa reattività che dipende probabilmente anche da ragioni storiche antiche: dal rapporto servile, diffidente e strumentale col potere che gli italiani hanno lungamente intrattenuto, che a sua volta ha radicato una forma di individualismo che sfocia facilmente nell’egoismo e nel disinteresse per tutto ciò che è pubblico o estraneo alla nostra sfera domestica.

Come che sia, fa una certa impressione vivere in un Paese dove ci si aspetta tutto dalla mano pubblica senza tuttavia essere quasi mai disposti a impegnarsi personalmente per una causa che non sia la propria. Circola in rete in queste ore il video, divertente ma anche assai istruttivo sul piano dell’educazione civica, di un emigrato italo-canadese d’origine marchigiana che ai suoi antichi paesani, che da due giorni postano foto di strade imbiancate lamentando i soccorsi del Comune che non arrivano, spiega che in Canada quando nevica (e si tratta di autentiche tormente che durano giorni e settimane) i cittadini s’armano di pala e si puniscono le strade da soli. Senza inveire contro nessuno, perché fa parte del loro dovere di cittadini e dei loro obblighi morali come membri di una comunità.

Sono debolezze o fragilità di cui noi italiani, anche solo inconsciamente, siamo ben consapevoli. Sappiamo che sono esse la vera causa dell’odierno nostro malessere e dei ritardi che il Paese deve scontare a paragone dei suoi alleati e competitori internazionali. Ma invece di affrontarle con coraggio preferiamo a quanto pare ripiegarci sempre più in noi stessi e cercare nel passato – anche quello peggiore, che dovrebbe restare seppellito per sempre – ciò che può rassicurarci: è la sindrome che Zygmunt Bauman ha definito “retrotopia” e che si attaglia benissimo al caso italiano. Il presente non ci piace, il futuro ci fa paura, e allora guardiamo al passato col rischio di restarne prigionieri e vittime, mentre tutto intorno il mondo cambia e corre veloce.

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)