di Alessandro Campi

Per capire cosa è stata la Prima guerra mondiale, con la speranza di trarne qualche insegnamento o monito cent’anni dopo al di là del fatto militare in sé, nonché per serbarne una memoria corretta oltre l’inevitabile retorica degli anniversari, bisogna guardare al lungo dopoguerra che l’ha seguita. Per certi versi straziante e doloroso più dello stesso conflitto in termini di vite perdute. Ma foriero anche di speranze e cambiamenti molti dei quali hanno segnato il mondo sino ai giorni nostri.
di Alessandro Campi

Per capire cosa è stata la Prima guerra mondiale, con la speranza di trarne qualche insegnamento o monito cent’anni dopo al di là del fatto militare in sé, nonché per serbarne una memoria corretta oltre l’inevitabile retorica degli anniversari, bisogna guardare al lungo dopoguerra che l’ha seguita. Per certi versi straziante e doloroso più dello stesso conflitto in termini di vite perdute. Ma foriero anche di speranze e cambiamenti molti dei quali hanno segnato il mondo sino ai giorni nostri.

Firmati gli armistizi si ebbe formalmente la pace ma non il ritorno alla normalità. Nei territori dell’Est europeo, ad esempio, la fine dello scontro tra Stati e Imperi significò, specie con la disgregazione di questi ultimi, l’inizio di terribili guerre intestine destinate a durare anni. A perpetuare il senso di apocalisse globale, quando il peggio in termini di distruzioni sembrava terminato, giunse poi la pandemia influenzale (passata alla storia come ‘spagnola’) che tra l’ottobre 1918 e il dicembre 1920 fece tra i trenta e i quaranta milioni di vittime (contro i dieci milioni di caduti tra i combattenti): dal terrore atavico di un contagio virale capace di sterminare il mondo forse non ci siamo più liberati.

A questa ecatombe vanno aggiunti gli sconquassi economici, politici, sociali e mentali che seguirono la fine delle ostilità: l’industria di guerra da riconvertire, i reduci smobilitati da reinserire nella vita civile (ma spesso divenuti irrecuperabili al consorzio umano), città, campagne e industrie ridotte a macerie da ricostruire, la familiarità con la violenza e il sangue acquisita da un’intera generazione e che avrebbe stravolto le modalità della lotta politica, ferite psichiche in molti casi più profonde di quelle corporali.

Grandiosi furono gli stravolgimenti nella carta geografica. In Europa nacquero nuovi Stati indipendenti, ma anche nuovi nazionalismi e nuovi irredentismi ad opera delle minoranze forzatamente inglobate nei nascenti territori sovrani: molti di essi, risorti dopo che nemmeno il comunismo sovietico è riuscito a piegarli, sono gli stessi che oggi minano l’unificazione del Vecchio continente. Nel vicino medio Oriente, invece, il collasso della dominazione turco-ottomana favorì l’effimero sogno colonialista franco-britannico: ne nacquero spartizioni e linee di confine, nonché forme di revanscismo politico-religioso, che in gran parte spiegano l’instabilità e il senso di frustrazione che ancora oggi caratterizzano il mondo islamico nella sua competizione sempre più conflittuale col mondo occidentale e nella sua ricerca di un difficile punto d’equilibrio tra modernità tecnologica, ortodossia confessionale e rispetto delle tradizioni sociali.

Ma per non perpetuare il mito negativo della Grande Guerra come “inutile strage”, giudizio morale che non rende ragione delle conseguenze storiche effettive di quella guerra, guardiamo anche ai suoi aspetti per così dire positivi o comunque oggettivamente innovativi rispetto al passato.

Per cominciare, l’irruzione delle grandi masse nella vita pubblica, il protagonismo dei giovani e delle donne, mandò in soffitta la cultura borghese-aristocratica ereditata dall’Ottocento, tolse di legittimità alle vecchie élite al potere e democratizzò la vita sociale degli europei, anche se il cammino verso la democrazia politica fu in molti Paesi assai più lento che in altri e ci sarebbe voluta una nuova guerra mondiale per renderlo effettivo.

Divennero poi irreversibili certi cambiamenti nel costume e nella mentalità. Ad esempio il senso di precarietà esistenziale e di fragilità emotiva, la spinta all’introspezione e all’intimismo, che da allora hanno segnato tutte le generazioni del Novecento. Quanto all’ondata commemorativa seguita alla fine del conflitto fu non solo una collettiva elaborazione del lutto. A caratterizzarla fu in primis il desiderio di perpetuare, per quanto possibile, la memoria di ogni singolo combattente: nelle guerre del passato non era mai accaduto che si riconoscesse l’irriducibile soggettività dei caduti in battaglia, senza distinzioni di grado. L’eguaglianza nella morte fu anche una spinta storica verso l’eguaglianza da affermare nella vita civile.

Soprattutto si consolidò allora, con la nascita della Società delle Nazioni, la ragionevole utopia di un mondo governato sulla base di regole globali e condivise. Un mondo fatto di Stati sovrani indipendenti, secondo l’architettura immaginata dal Presidente americano Wilson, ma disposti a cooperare su una base di parità giuridica e morale. Da allora l’internazionalismo liberale ha continuamente dovuto fare i conti con le dinamiche di una potenza per definizione asimmetrica e con le crude ragioni del realismo. Ma senza quella spinta idealistica, nata come reazione etica e politica alla guerra, non esisterebbero né l’odierna Unione europea né le altre istituzioni, per quanto imperfette, che oggi contribuiscono a governare i processi mondiali.

Quanto agli insegnamenti e ai moniti cui si accennava all’inizio, sono almeno due. Il primo, attualissimo, riguarda il fatto che le ansie e paure collettive quando non governate o non comprese nelle loro scaturigini dalla politica, o da quest’ultima cavalcate a fini di propaganda e consenso, divengono fatalmente distruttive della convivenza. Il fascismo in Italia, come altrove in Europa l‘affermarsi di regimi autoritari, non furono l’esito inevitabile della guerra, ma il frutto della micidiale convergenza di molti fattori: istituzioni deboli, élite in fuga dalle loro responsabilità, masse impoverite e timorose del futuro, demagoghi irresponsabili disposti a soffiare sul fuoco, la razionalità sacrificata alla propaganda. Un quadro purtroppo molto simile a quello europeo odierno, da rifuggire cercando di neutralizzare singolarmente questi fattori e di impedirne il coagulo.

Il secondo concerne invece la possibilità reale che un equilibrio geopolitico percepito come iniquo alla lunga scateni nuovi conflitti. La ‘pace cartaginese’ di Versailles, assurdamente punitiva verso la Germania, ne favorì il revanscismo e l’escalation militarista che si pensava di aver bloccato per sempre. Oggi, guardando alle difficoltà dell’Europa e gli squilibri interni che ne minano l’unità, viene facile chiedersi quanto essi dipendano dalla miopia (e un po’ anche dall’egoismo) di quegli Stati che spesso spacciano per rispetto delle regole condivise la difesa ad oltranza dei propri interessi a danno degli altri partner. La sfida disgregatrice lanciata dai sovranisti non si vince forse riportando l’Europa sulla strada della giustizia sociale e di una vera solidarietà tra gli Stati che la compongono?

Insomma, se oggi celebriamo la fine della guerra (vittoriosa per l’Italia, e guai a dimenticarlo proprio in questa giornata dolorosamente solenne) è anche per ricordare quando sia difficile, tornata la pace, gestirne il lascito e le conseguenze.

  • Articolo pubblicato su “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 4 novembre 2018.

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