di Alessandro Campi
L’esito secondo alcuni più probabile di questa pazza crisi potrebbe essere una riedizione del vecchio pentapartito (con o senza Conte alla sua guida). Ma con una paradossale novità rispetto alla formula in auge ai tempi della Prima Repubblica: sarebbe infatti un pentapartito… senza partiti.
E veniamo così al nodo strutturale che spiega non solo le convulsioni istituzionali di questi giorni, ma le difficoltà che agitano ormai da anni la vita politica nazionale.
di Alessandro Campi

L’esito secondo alcuni più probabile di questa pazza crisi potrebbe essere una riedizione del vecchio pentapartito (con o senza Conte alla sua guida). Ma con una paradossale novità rispetto alla formula in auge ai tempi della Prima Repubblica: sarebbe infatti un pentapartito… senza partiti.

E veniamo così al nodo strutturale che spiega non solo le convulsioni istituzionali di questi giorni, ma le difficoltà che agitano ormai da anni la vita politica nazionale. Non ci sono più, signora mia, i partiti di una volta, con una struttura e una cultura politica di riferimento: sono stati distrutti, così come esistono nel resto d’Europa, e ciò che ne ha preso il posto è un insieme, cangiante da quasi tre decenni in modo vorticoso, di sigle, simboli, loghi, marchi e acronimi.

Non c’è insomma più nulla che somigli ad una politica organizzata, capace di muoversi e di decidere sulla base di indirizzi definiti e vincolanti. Dal post-partito siamo passati al non-partito. O, per meglio dire, siamo passato dal partito personale (con un padrone che almeno comandava) al partito individuale. Oggi, il primo che si alza detta la linea, guardando a cosa gli conviene di più o a quanto scrivono gli invasati sui social media. Un governatore di regione o un sindaco di media città è un partito a sé. Ma forse ogni cittadino ormai, purché abbia dinnanzi una tastiera, si considera un partito composto da un solo membro: segretario, funzionario, militante, elettore e ufficio stampa di se stesso. Da un lato sembrerebbe un’esplosione di soggettività politica persino apprezzabile, dall’altro è la fotografia del caos nel quale siamo immersi.

Ma torniamo all’ipotetico governo pentapartitico che potrebbe nascere. Per avere una base parlamentare minima solida, esso dovrebbe infatti comprendere il Pd, il M5S, Leu, Italia Viva e la Cosa Bianca. Quest’ultima (Cosa, non Rosa), sta nascendo dall’aggregarsi in Senato e alla Camera di parlamentari rimasti strada facendo senza casacca o con la casacca scolorita, ovvero appartenenti al novero dei “sempre pronti” (per interesse personale, non per amor di Patria).

Ma già da questo si capisce che non stiamo parlando di un partito, ma dell’ennesimo accrocco politico-parlamentare di stampo vagamente centrista, di cui si sa già – l’esperienza qualcosa insegna – che non reggerebbe ad alcuna prova elettorale. Insomma, puro trasformismo e opportunismo di Palazzo. Niente che abbia a che fare coi bisogni degli italiani o con le divisioni – sociale, culturali, economiche – che esistono in ogni grande comunità. Niente dunque di cui resterà traccia tra un anno o due.

Ma anche gli altri partecipanti a questa eventuale maggioranza, guardando alla loro evoluzione di questi anni e mesi, si fatica a considerarli partiti, cioè strutture organizzate, guidate in modo unitario e coerente, capaci non solo e non tanto di raccogliere voti nella società italiana, quanto di avere un‘idea di come quest’ultima sta cambiando, di cosa quest’ultima realmente voglia, di quali siano i suoi interessi e di come fare per rappresentarli al meglio.

Prendiamo Italia Viva. Siede in Parlamento solo grazie a un cavillo regolamentare. Vale, dal punto di vista dei sondaggi, quel che vale: assai poco. Finché c’era il renzismo come progetto politico di stampo vagamente riformista, un partito di Renzi poteva avere un senso. Oggi, finita malamente quella stagione, rischia di essere solo il partito di Renzi: un vascello corsaro che lotta per garantire una sopravvivenza a quest’ultimo e ai suoi fedelissimi.

Leu (Liberi ed Eguali) è invece l’evoluzione in forma di pseudo-partito di una lista elettorale nata a sua volta da un accrocco di sigle che nel 2017, in vista delle elezioni politiche dell’anno successivo, si raccolsero intorno alla figura di Pietro Grasso. Chi sia oggi il capo di Leu francamente non si capisce. La sua madrina, Laura Boldrini, nel frattempo è passata al Pd (che l’ha silenziata). Di Grasso non si sente più parlare (si è silenziato da solo). Forse comanda Speranza, forse Fratoianni, forse Bersani, probabilmente nessuno. Diciamo, per essere generosi, che Leu è il temporaneo contenitore politico della sinistra a sinistra del Pd (non chiamiamola sinistra radicale perché altrimenti si offendono). Ieri non c’era, oggi c’è, domani chissà.

E il M5S? Una galassia che deliberatamente non vuole essere un partito (e ci riesce benissimo). Aveva due capi-demiurghi (Grillo e Casaleggio), poi ha avuto un capo politico designato dall’alto (Di Maio), adesso ha un portavoce al quale nessuno dà retta (Vito Crimi). In realtà è un soggetto politico con mille anime tra loro in conflitto perenne. Nel 2018 ebbe quasi il 33% dei voti, oggi di grazia se vale un terzo. In due anni ha visto decine di suoi parlamentari andarsene per ogni dove. Alla sua base non ha un’ideologia, ma un guazzabuglio di umori: cattivi, per lo più. Dicono che a governarne le scelte sia un algoritmo. Magari! La verità è che è stato il frutto di un’esplosione irrazionale di follia: il sogno (diciamo l’incubo) del cittadino qualunque e senza esperienza nella stanza dei bottoni. Non una nuova idea del potere, ma una vendetta contro chi lo deteneva e ne ha in effetti spesso abusato. La contro-democrazia cella vigilanza che rischia in realtà di ucciderla.

Resterebbe, come testimone ed erede di quelli che un tempo erano i partiti cosiddetti popolari e di massa, il Pd. Anche se di quell’esperienza sembra piuttosto il fantasma. Il Pd ha una sede. Ha rappresentanze regionali. Ha un bel simbolo. Ha un gruppo dirigente scafato e di grande esperienza. Peccato che non abbia una linea politica (salvo quella di stare sempre al governo anche quando perde le elezioni). Peccato altresì che abbia paura anche della sua ombra (altrimenti perché il desiderio di continuare ad immolarsi per Conte?). E’ un partito dove basta una dichiarazione alla stampa di Goffredo Bettini per annullare le decisione del segretario o della direzione nazionale. Probabilmente è nato male, da una improbabile alchimia tra post-comunisti e post-democristiani. Di sicuro non funziona per come vorrebbe e per come servirebbe all’Italia.

In questo quadro desolante, descritto con tinte caricaturali ma ahimé realistiche, si scopre che il più aderente allo spirito dei tempi è stato Giuseppe Conte. Venuto dal nulla, ha piegato alla sua volontà i partiti che lo sostenevano non avendo un partito e non avendo nemmeno idea di cosa possa significate militare in un partito. E magari gli riuscirà anche il miracolo del Conte Ter. Quale migliore dimostrazione che i partiti nell’Italia odierna non esistono più e non servono più a nulla?

  • Apparso su “Il Mattino” (Napolit) del 27 gennaio 2021

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