di Alessandro Campi
La decisione di Erdogan di dare il via all’operazione militare nel nord-est della Siria, la quarta a partire dal 2016, costituisce un nuovo drammatico capitolo della guerra siriana nonché l’ennesimo tentativo da parte del Presidente turco di arrestare la perdita di popolarità interna. Sono molteplici i fattori – sistemici, regionali e interni- che hanno spinto la Turchia ad intraprendere un’iniziativa militare unilaterale contro i curdi. La dimensione domestica, in particolare, per quanto venga spesso sottovalutata risulta essere in questo caso determinante per comprendere meglio le motivazioni alla base di una azione militare che si preannuncia dai risvolti tragici per le comunità curde stanziate nell’area.
di Alessandro Campi

La decisione di Erdogan di dare il via all’operazione militare nel nord-est della Siria, la quarta a partire dal 2016, costituisce un nuovo drammatico capitolo della guerra siriana nonché l’ennesimo tentativo da parte del Presidente turco di arrestare la perdita di popolarità interna. Sono molteplici i fattori – sistemici, regionali e interni- che hanno spinto la Turchia ad intraprendere un’iniziativa militare unilaterale contro i curdi. La dimensione domestica, in particolare, per quanto venga spesso sottovalutata risulta essere in questo caso determinante per comprendere meglio le motivazioni alla base di una azione militare che si preannuncia dai risvolti tragici per le comunità curde stanziate nell’area.

Un aspetto centrale da considerare è la necessità di Erdogan di distogliere le attenzioni del pubblico turco da un andamento dell’economia che dopo la crisi commerciale con gli Stati Uniti (2018) e il maggiore controllo del Presidente sulla Banca Centrale turca continua ad arrancare faticosamente. L’aumento dell’inflazione al pari di quello del tasso di disoccupazione hanno costituito due spine nel fianco dell’attuale esecutivo a guida presidenziale facendo perdere al partito di governo (AKP) e al suo leader molti consensi nell’ultima tornata elettorale. Nella visione organicistica di Erdogan, la politica estera riveste un ruolo centrale soprattutto perché l’immagine internazionale del paese proiettata nel contesto domestico ha una ricaduta diretta sulla sua popolarità e sulla capacità di leadership interna. In altre parole, negli ultimi anni la politica estera turca è risultata essere sempre più al servizio degli obiettivi di politica interna di Erdogan. Per questo motivo la scelta dell’offensiva contro i curdi si lega a doppio filo agli sviluppi domestici. Nel contesto turco, la maggioranza della popolazione abbraccia un fervente nazionalismo che assume a seconda del colore politico una declinazione laico-kemalista o islamico-erdoganista. La trasversalità di questi due nazionalismi è rintracciabile nella comune matrice costituita dalla salvaguardia della sovranità e dell’integrità, territoriale e identitaria, della nazione turca. In questo senso, per quanto i movimenti conservatori da una parte e le componenti più progressiste della società civile laica dall’altra parte abbiano mostrato nel corso degli ultimi vent’anni una maggiore apertura e predisposizione al riconoscimento dell’identità curda, questa rimane invisa e in parte negata dalla maggioranza dei turchi. La questione si sposta dunque su un piano securitario, ossia su come un’identità quale quella turca nata con una forte predisposizione totalizzante e negazionista delle differenze, percepisca come minaccia, identitaria prima ancora che territoriale, le componenti curde. Da qui, la ferma volontà di impedire la formazione di una entità territoriale autonoma curda lungo tutto il confine meridionale. Un obiettivo di primaria importanza al punto da spingere nel 2011 il paese al coinvolgimento nel complesso scenario siriano. Inevitabilmente, la formazione nel 2015 del Rojava, unità amministrativa curda istituita sui territori liberati e difesi dall’avanzata Daesh, ha rappresentato agli occhi dei policy-makers turchi una minaccia primaria alla propria sicurezza. A preoccupare Ankara sono le ricadute che la formazione di uno stato indipendente curdo avrebbe tanto sul risveglio delle rivendicazioni autonomistiche dei curdi presenti in Turchia – circa 15 milioni – quanto sul supporto fornito ai gruppi di guerriglieri del PKK con i quali le forze maggioritarie all’interno del SDF – YPG e YPJ – condividono alcuni principi ideologici di matrice leninista.

Sintomatico del trasformismo e opportunismo politico di Erdogan il fatto che il presidente turco sia diventato il principale nemico dei curdi dopo essere stato per diversi anni uno dei principali fautori del processo di normalizzazione dei rapporti, con tanto di riconoscimento dell’identità etnico linguistica del popolo curdo presente all’interno dei confini turchi.  Nel 2015, gli sviluppi regionali successivi alla resistenza di Kobane, l’affermazione interna dell’HDP, partito turco trainato da una significativa componente curda, e la rottura dei negoziati con il PKK hanno mutato l’atteggiamento di Erdogan nei confronti dei curdi facendogli assumere una politica aggressiva formalizzata in una strategia di azione preventiva: la dottrina Erdogan. L’idea centrale del nuovo approccio alla sicurezza nazionale è che, di fronte a un’ampia gamma di problemi e sfide interne ed esterne, la Turchia è chiamata a rispondere in maniera aggressiva attraverso iniziative volte a disinnescare tutte le potenziali minacce. Da qui le operazioni Scudo dell’Eufrate (2016) e Ramoscello d’Olivo (2018) fino all’attuale operazione denominata Sorgente di Pace.

Un ulteriore elemento di pressione interna nei confronti del governo Erdogan è dato dalla presenza in Turchia di quasi tre milioni e mezzo di rifugiati siriani. La gestione di tale flusso ha consentito al Presidente turco di sfruttare una importante leva di contrattazione nei confronti dell’Unione Europea e allo stesso tempo ostentare l’approccio umanitario del paese soprattutto agli occhi della comunità musulmana mondiale. Tuttavia, la questione rifugiati ha assunto una maggiore rilevanza di politica interna negli ultimi mesi. Infatti, a determinare il malessere nei confronti dell’AKP è stata proprio la gestione dei siriani nei grandi centri urbani e nelle aree di confine dove da alcuni anni sono emersi molteplici problemi di natura socio-economica che hanno interessato soprattutto le classi turche più deboli, da sempre componente essenziale dell’elettorato di Erdogan. Il progetto turco di reinsediamento dei rifugiati nelle aree conquistate ai curdi risulta non privo di profonde contraddizioni ed effetti deleteri a medio-lungo termine in rapporto agli equilibri demografici della zona.

Un altro aspetto di politica interna da tenere in considerazione riguarda la necessità di Erdogan di mettere il cappello su una questione particolarmente cara alle componenti più nazionaliste del proprio elettorato e quelle che fanno capo al partito alleato MHP. Sfruttando il periodo di degenza dello storico leader del MHP, Devlet Bahçeli – in ospedale da qualche settimana, Erdogan tenta di assicurarsi il favore della destra nazionalista. Un corteggiamento iniziato da diversi anni e che l’imminente formazione di una piattaforma di centro destra composta dai molti fuoriusciti del primo AKP, su tutti l’ex Ministro dell’Economia Ali Babacan, ha reso più pressante. Infatti, la costituzione di un movimento politico in grado di portare via voti ad Erdogan tra l’elettorato liberal conservatore ha convinto il Presidente turco ad accentuare il carattere nazionalista della propria agenda politica. L’avvio delle operazioni oltre il confine ha anche fatto riemergere le contraddizioni all’interno del CHP. Il principale partito di opposizione, nonostante la trasformazione avviata negli ultimi mesi e sfociata in alcuni importanti successi elettorali a marzo, tra cui Istanbul, si trova a dover fronteggiare il dilemma tra la necessità di rinnovarsi e l’aderenza ai principi del Kemalismo. Il supporto dato alle operazioni, che trova ragione nell’affinità storica con le forze armate e nell’obiettivo, dichiarato in campagna elettorale, di rimpatriare i siriani, ha messo in luce le tensioni interne al CHP.

Infine, dietro alla scelta di avviare una nuova operazione militare in territorio siriano vi sono anche moltissimi interessi economici. In particolare due settori, quello edilizio e quello di difesa, hanno un peso specifico significativo nelle recenti scelte dell’esecutivo. Il primo è un settore fondamentale dell’economia turca nonché del sistema clientelare gestito dall’esecutivo che sta risentendo della crisi degli ultimi mesi e troverebbe in una Siria devastata da quasi dieci anni di guerra nuove opportunità per commesse multimilionarie. Il secondo, invece, si lega alla trasformazione del settore avviata a partire dal 2011 e finalizzata a far assumere alla Turchia un ruolo di rilievo nel mercato in quanto produttore ed esportatore di hardware militare.

Per i motivi di cui sopra, in particolare il forte patriottismo e il diffuso atteggiamento sprezzante nei confronti delle rivendicazioni curde, l’attacco della Turchia incontra i favori tanto del pubblico turco pro-AKP/Erdogan quanto di molti di coloro che non si rivedono nella ‘nuova’ Turchia del Presidente. Dunque la guerra, nella fattispecie la guerra alla minaccia curda, è la migliore delle carte possibili per Erdogan per tentare di ricompattare un paese fortemente polarizzato.  A farne le spese sono i curdi che tanto la narrazione turca quanto le contro narrazioni occidentali tendono, troppo spesso, a rappresentare come un blocco monolitico accentuando un approccio miope alla questione e, conseguentemente, allontanando qualsiasi soluzione di compromesso tra le parti. A ciò, si aggiunge l’immobilismo della comunità internazionale, di tutto l’Occidente e in particolare dell’Unione Europa, testimone omertoso di fronte ad una tragedia umanitaria annunciata che rischia di assumere i connotati del massacro e che peserà come un macigno sul giudizio della storia.

 

Articolo apparso su Luiss Open, 11 Ottobre 2019

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