di Marcello Marino
Si chiama rivoluzione. Si può realizzare in diversi modi e riguardare molti ambiti ma, in politica, ha il significato di rivolgimento, trasformazione radicale – o almeno profonda – di un sistema e delle sue espressioni di governo. Tuttavia nominarla, quando non è già nel vocabolario di chi la attua, appare piuttosto faticoso, soprattutto se i criteri di interpretazione non la includono. È più o meno quello che accade di fronte al risultato politico italiano,
di Marcello Marino

movimento-5-stelle-489366.660x368Si chiama rivoluzione. Si può realizzare in diversi modi e riguardare molti ambiti ma, in politica, ha il significato di rivolgimento, trasformazione radicale – o almeno profonda – di un sistema e delle sue espressioni di governo. Tuttavia nominarla, quando non è già nel vocabolario di chi la attua, appare piuttosto faticoso, soprattutto se i criteri di interpretazione non la includono. È più o meno quello che accade di fronte al risultato politico italiano, nel quale la maggior parte dei commenti continua ad essere animato da una visione “pre-rivoluzionaria”, legata alla logica dell’espressione di voto come identificazione ideologica, alla strategia delle alleanze come conquista della maggioranza o alla fenomenologia del popolo bue che segue ignaro l’onda del leader di turno invece di affidarsi a coscienziosi navigati uomini d’apparato. Invece sarebbe la più adeguata sintesi dell’accaduto: c’è stata una rivoluzione, almeno nel primo effetto dell’espressione popolare del voto. Non sappiamo ancora in che misura sarà anche una rivoluzione in termini di governo (questo dipenderà dal genere di governo che si andrà a formare e alla quantità e qualità dei cambiamenti effettivi che si realizzeranno nei prossimi anni) ma è a partire dalle ragioni e dalle modalità della sua realizzazione che si rende necessario ragionare.

La forza politica (M5S) che il maggior partito di centrosinistra (PD) considerava la propria naturale avversaria, raccoglie (anche) i voti dei transfughi di quel partito. Appare, però, in tutta evidenza, la difficoltà diffusa di considerare questo fenomeno come una contiguità, una “coerenza” che non si è riusciti a intercettare o si tendeva a sottovalutare prima del voto.

Il Pd di Renzi, incapace di rappresentare le radici più antiche di quel partito, mette in fuga prima i suoi rappresentati interni di ciò che rimane della tradizione di sinistra e poi i suoi elettori di sinistra. Perché questi ultimi non seguono i loro “naturali” rappresentanti che, nel frattempo, fondano un nuovo partito? I motivi sono sicuramente molteplici: dalla scelta del leader (un magistrato della borghesia siciliana senza storia politica ma con solo un’esperienza istituzionale che non lo trasforma certo in un leader comunista o socialdemocratico) al dubbio relativamente al peso effettivo in un nuovo organigramma istituzionale, ai candidati non nuovi al sistema ma, anzi, attivi e responsabili di molte delle scelte politiche degli ultimi decenni. Così gli elettori in fuga dal Pd confluiscono nel M5S ma, ancora, pare che si tratti di elettori di scarsa rilevanza, forse la parte meno rappresentativa di quel partito, la meno consapevole, insomma quella “popolare”, che ormai non piace più a nessuno salvo appellarsi ad essa per essere legittimati in parlamento.

Questo però crea un ulteriore elemento di smarrimento: sembrerebbe così che quel movimento, ripetutamente segnalato come vicino a istanze leghiste, anti-politico e anti-ideologico, abbia un’anima di sinistra e, paradossalmente – in quanto anti-renziana – della sinistra più tradizionale.

È proprio grazie a questo contributo che il movimento schizza a oltre il 30%, fenomeno che ne sancisce una volta per tutte la natura vera di “movimento”, capace di attrarre realtà e appartenenze diverse, cosa che – utilizzando le ordinarie categorie – lo trasforma in grande partito di massa, come lo erano il partito comunista e la democrazia cristiana. Tuttavia, per la sua capacità di attrarre una moltitudine in nome di istanze sociali riconducibili alla fetta più debole della popolazione e per le istanze di trasparenza, giustizia sociale e guerra ai privilegi, se proprio vogliamo azzardare una somiglianza, somiglia più al primo che al secondo, pur naturalmente svuotato di buona parte dei profondi significati ideologici di quel partito. Ma, al di là dei contenuti specifici, l’elemento propulsivo è rimasto lo smantellamento del sistema, il cambiamento radicale. Si è scelta la strada dello scontro politico attraverso le forme istituzionali, una mobilitazione più o meno organizzata, la piazza come luogo d’incontro, mentre i detrattori segnalavano l’inconsistenza dei voti attraverso una piattaforma on-line per generare i candidati, l’occulta manipolazione della Casaleggio, la mancanza di democrazia interna al movimento.

Nessuno di questi temi ha avuto effetto, gli elettori non si sono sentiti oggetti di un disegno occulto che li portava a votare né hanno accettato la somiglianza eventuale con pratiche truffaldine della politica nota quando si è scoperto che una parte degli eletti non donava quanto promesso. Perché l’obiettivo, evidentemente, era più solido degli ostacoli che gli si prospettavano.

Per lo stesso motivo, parte di quegli elettori ha accolto tiepidamente alcuni dei nomi indicati come ministri (ad esempio Giuliano, al quale, vista la pronta protesta interna di chi vede nel preside pugliese un elemento di continuità con la legge 107, è stata chiesta una dichiarazione pubblica in cui si è impegnato a procedere nello smantellamento della Buona Scuola renziana), ritenendo che le figure proposte come ministri partecipino essenzialmente alla messa in atto del programma, non alla sua scrittura/riscrittura.

Insomma, paradossalmente, la forza irrazionale del movimento sembra sostenersi su un sostrato razionale, l’impeto sulle ragioni, la distruttività sul cambiamento. Né destra né sinistra, si dice, ma ci vorrà del tempo per sancire la fine (ammesso che ve ne sia bisogno) di questo dualismo, perché a questo dualismo abbiamo comunque ragione di riferirci finché almeno la nostra esistenza conserva tracce di quella storia.

La sinistra confluita nei cinquestelle conserverà le proprie radici, presserà come potrà in direzione del riconoscimento di una specificità quando si parlerà di immigrazione, sanità o scuola; rivendicherà un ruolo nella legittimazione della trasformazione del movimento da forza di opposizione a forza di governo; spingerà verso una forma di alleanza con un Pd senza Renzi e con LeU. Intanto ha partecipato, non inconsapevolmente – come molti vorrebbero far intendere – al progetto di smantellamento del sistema, alla rivoluzione annunciata e inseguita. E la rivoluzione è in buona parte riuscita: il renzismo è battuto, ed è battuto anche il berlusconismo. Il M5S ha decretato lo sconvolgimento a sinistra mentre la Lega lo ha determinato a destra. Tuttavia la crescita della Lega avviene nel solco delle destre europee, ha i segni riconoscibili dei partiti xenofobi e nazionalisti, mentre il M5S sviluppa un proprio linguaggio, provoca lo smarrimento in chi ne interpreta i tratti e finisce per somigliare a molti mentre rivendica distanza da tutti.

La rivendicazione di quella distanza, però, riguarda i modi, non necessariamente i contenuti. A più riprese, infatti, hanno ribadito che l’unica convergenza per loro possibile è proprio sui contenuti, mentre sui modi hanno segnato la loro distanza dal partitismo classico (modi ai quali è stato sempre rivolto l’attacco degli avversari politici: sistema on-line; gestione di iscritti e candidati; gestione amministrativa del movimento; soggetto “garante” che è altro dal leader politico; società di consulenza per la piattaforma che si sovrappone all’orientamento di pensiero e programmatico del movimento), tutte questioni non irrilevanti ma che non si sono rivelate decisive. E non lo sono state perché il messaggio fondamentale è rimasto inalterato di fronte a tutti gli attacchi possibili, non c’è stato nessun cedimento per aggraziarsi i detrattori, nessun cambiamento, il principio semplice e irremovibile è rimasto nell’articolazione degli inizi: questa classe politica è responsabile delle condizioni in cui versa il paese, è collusa con il potere finanziario quando non con le mafie, è attenta alle richieste degli organi sovranazionali e ignora le richieste di aiuto che arrivano dalle fasce più deboli della popolazione, quindi questa classe politica va mandata a casa.

Questo, in un’ottica “rivoluzionaria”, è movente necessario e sufficiente. E la rivoluzione che a questo si è ispirata, per quel che riguarda l’apparato dei partiti, è compiuta (smantellato l’assetto, ridotta severamente la rappresentatività del più grande partito italiano, fuoriusciti nomi storici della politica nazionale). Resta da vedere in che modo si realizzerà il passaggio successivo, se come continuazione di quella rivoluzione o come il suo intorpidimento. Facile immaginare che questo secondo effetto sia il più plausibile, giacché la strada di una istituzionalizzazione formalizzata in un incarico di governo dei cinquestelle (con l’appoggio di un Pd senza Renzi), qualora si realizzasse, comporterebbe l’assunzione di una responsabilità doppia: verso elettori poco inclini ad aggiustamenti di palazzo e verso il ruolo di guida del paese. In fondo, ad ogni rivoluzione segue un assestamento, certo, ma la vera difficoltà sarà dare all’assestamento il vigore e il fascino che invece le battaglie fuori dal parlamento riescono più facilmente a conservare.

 

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