di Luca Marfé*

donald-trumpQuella di Trump è una trappola. Una voragine che potrebbe essere ben più profonda dei 4 anni del suo primo mandato nella quale stanno già cadendo in molti, soprattutto tra le fila di analisti e commentatori. Il perché sta nella benda dell’ideologia capace di coprire anche il più saggio degli sguardi. Ideologia della quale ci si dovrebbe spogliare, invece, per provare a capire. E contrastare per davvero rischi e pericoli di questa nuova leadership.

Il punto di partenza di qualsiasi riflessione precede, e di parecchi mesi, il suo discorso di insediamento del 20 gennaio scorso.

Già durante il corso della campagna elettorale, infatti, Trump è stato “frainteso”, o meglio non compreso affatto. Inorridite e alle volte di scherno le prime reazioni in casa democratica alla sua candidatura. Provocatorie ed osteggianti le posizioni degli stessi repubblicani, un partito che in realtà poco o nulla aveva ed ha tutt’ora a che vedere con il nuovo inquilino della Casa Bianca.

Nel frattempo, però, tra la gente iniziava a muoversi qualcosa. Qualcosa che nella migliore e più onesta delle ipotesi è sfuggita ai radar di molti media e, viceversa in quella peggiore e più faziosa, si sperava di poter nascondere come polvere sotto un tappeto nel tentativo, rivelatosi evidentemente fallimentare, di produrre una narrativa diversa attorno ad una posta in palio così alta.

Questo qualcosa è cresciuto come un’onda di settimana in settimana ed è sempre, puntualmente, ruotata attorno al registro comunicativo di Trump.

Parole e toni soltanto apparentemente scomposti, agli antipodi di quel politically correct effige di Obama, che in realtà sono stati il frutto sempre più studiato di scelte iniziali improvvisate. Grida e prese di posizioni forti, talvolta assurde, che pian piano però si sono andate riconfigurando in un vero e proprio schema tattico. Il tycoon, insomma, ha capito che proprio nel fair play di Obama si stava producendo un gigantesco scollamento tra la politica e la base di questo Paese. Uno squarcio in cui è riuscito ad infilarsi in maniera magistrale senza che nessuno se ne rendesse troppo bene conto.

E, venendo finalmente alla cerimonia del suo giuramento, che cosa ha fatto in occasione del suo primo discorso?

Ha fatto esattamente la stessa cosa. Ha tenuto in mano lo stesso registro, lo stesso grappolo di affermazioni più o meno strillate. Ha fatto leva sul passato, sulle tradizioni a stelle e strisce, sulle paure (su tutte immigrazione e terrorismo islamico) che erano state quasi volutamente evitate, o comunque trattate con i guanti, dagli altri candidati.

Quello che è passato alla storia come uno dei discorsi di insediamento più vuoti e gravi, dunque, altro non era che ciò di cui aveva bisogno per alimentare la sua retorica e, ancor di più, quel clima di divisione che è riuscito furbescamente a produrre in un Paese che diviso non lo è stato mai più dall’indomani della fine della guerra di secessione. Un’operazione che noi italiani dovremmo capire meglio di chiunque altro, verrebbe da dire quasi di natura “berlusconiana”, e che, invece, non soltanto ha colto tutti di sorpresa, ma continua in qualche modo a sfuggire anche ai “palati” più fini.

E qui la trappola.

Il clima di divisione, infatti, è stato, è e sarà (in assenza di una svolta) alimentato anche e soprattutto da chi fa opposizione. Un’opposizione che rischia di suonare ottusa, o peggio ancora faziosa, che rischia di spostare ulteriormente l’ago della bilancia a favore di Trump.

Ed anche in questo caso noi italiani, che di giornali e paginoni ne abbiamo sfogliati tanti, dovremmo essere capaci di leggere tra queste righe 20 anni di vittorie di Silvio Berlusconi.

Se è vero da un parte, infatti, che il nuovo presidente si è mosso in direzioni pericolose e preoccupanti, è altrettanto vero che non si possa gridare a squarciagola per qualsiasi suo passo.

Gli americani si sono espressi. Il sistema di voto è discutibile, ma le regole erano e restano queste. Il loro leader sta iniziando ad incastrare i tasselli del nuovo mosaico americano sulla base di quanto promesso in campagna elettorale.

Non c’è scandalo in questo, per quanto ovviamente si possa essere d’accordo o meno. Per quanto ovviamente ci si possa (e ci si debba) sentire liberi di manifestare il proprio dissenso.

Purché il dissenso non si trasformi in tifoseria.

Un esempio, delicato ma indicativo e necessario: l’azzeramento dei fondi federali destinati alle ONG che informano o operano direttamente nell’ambito del dossier aborto è una sorta di “tradizione” cui sono stati fedeli praticamente tutti i presidenti repubblicani degli ultimi decenni. La cosa, al tempo, è sempre passata in sordina, ma si trasforma oggi in una sorta di boato mediatico perché a firmare l’ordine esecutivo è Donald Trump.

Anche sul tema delle donne, e del femminismo in generale, verrebbe in primis da chiedersi dove fossero le centinaia di migliaia di manifestanti della marcia di Washington lo scorso 8 novembre, visto che il 51% delle donne bianche ha preferito l’attuale presidente a Hillary Clinton. E, anche in questo caso, la verità si discosta dal supporto che si potrebbe essere tentati di offrire: la manifestazione di alcuni giorni fa, infatti, è stata una manifestazione politica e non femminista. Sono scese in piazza le donne contro Trump, quelle che non lo hanno votato o quelle che non hanno votato affatto. Ma non tutte le donne degli Stati Uniti. Ed è così che la marcia, per onestà intellettuale, avrebbe dovuto essere raccontata.

Per contornare ancor più il quadro del “due pesi e due misure” che ci allontana dalla verità, o quantomeno da ciò che sta accadendo e maturando giorno dopo giorno qui negli Stati Uniti, è necessario un riferimento alle tante guerre (e bombe) di questi anni. Quelle firmate dall’amministrazione Obama, infatti, sono passate quasi inosservate rispetto alle altrettante, se non di più, sganciate dalle precedenti amministrazioni repubblicane. E, per certo sin da ora, rispetto a qualunque mossa possa voler muovere Trump sullo scacchiere estero.

Insomma, prepariamoci ad accogliere il ritorno delle tante bandiere arcobaleno che in questi anni sono rimaste arrotolate in qualche armadio polveroso.

E, per concludere, cosa dire del discusso (e discutibile) muro al confine con il Messico?

Uno dei grandi cavalli di battaglia non soltanto dei mesi scorsi, ma proprio di questo avvio di stagione di questa 45esima presidenza. Be’, per quanto possa far storcere il naso ed evidentemente complicare le relazioni diplomatiche e commerciali con un vicino di casa così importante per gli equilibri statunitensi, quel muro nella realtà dei fatti c’è già ed era stato voluto e autorizzato a suo tempo (nell’oramai lontano 1994) da un certo Bill Clinton. Trump, infatti, non ne propone altro che un ampliamento ed un rafforzamento. Nulla di originale né tantomeno di rivoluzionario per quello che è l’ennesimo tormentone della sua propaganda e, grosso modo, nulla più.

E di nuovo, per concludere, la trappola.

Una narrativa di parte di queste e di tutte le altre vicende che riguarderanno la nuova Casa Bianca non fa altro che favorire chi delle divisioni e del linguaggio scorretto, addirittura brutale, ha già dimostrato di essere il maestro.

Scegliere di percorrere questa strada significa infilarsi scientemente in un’arena al centro della quale si rischia di essere sconfitti, oltre che sonoramente, a lungo nei mesi e negli anni a venire.

Il linguaggio ed il terreno della sinistra, sia essa dei democratici americani che dei tanti fronti più vicini geograficamente al nostro, è quello della ragione, della riflessività.

Tornare a ragionare sui propri errori (clamoroso quello della scelta del candidato), e più in generale tornare a ragionare, a fare autocritica anche, è l’unica via possibile.

Alzare la voce fa il gioco di chi la voce l’ha già alzata da un pezzo.

Dimostrando, tra l’altro, di esserne addirittura capace.

* Giornalista e blogger.

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