di Gianluca Sgueo*

Qualche anno fa Nilde Iotti, al tempo Presidente della Camera dei Deputati, apostrofò piccata in Parlamento il Tg2 di Volpi perché il giorno prima aveva mandato in onda un servizio dedicato ai lobbisti. Il servizio incriminato aveva osato sostenere che i rapporti tra i professionisti della rappresentanza di interessi e i parlamentari erano quotidiani. Apriti cielo. Non lo avessero mai fatto, fu come scoperchiare il più classico dei vasi di Pandora. Del resto, come dar torto alla Iotti? Sempre in quegli anni andava di moda sui quotidiani nazionali descrivere i lobbisti come esseri spregevoli e torvi, seduti fuori le Commissioni parlamentari, in attesa che uscisse un Deputato o un Senatore, per prenderlo sottobraccio e bisbigliargli all’orecchio segreti irripetibili. I “sottobraccisti”, come li chiamava il Senatore Gustavo Minervini. Più o meno in quegli anni, era il 1984, il quotidiano La Repubblica pubblicò un articolo in cui si diceva dei lobbisti che fossero soliti conservare in tasca un pezzetto di stoffa. Avete capito bene, un pezzo di stoffa. Serviva loro per asciugare la mano che avrebbe stretto altre mani, e con esse avrebbe concluso chissà quali accordi, trame e tranelli.

Capirete che, dato il clima, di lobbying e politica in Italia non si è mai parlato molto, e quando lo si è fatto non è mai stato seriamente. Semmai, è stato per agitare le acque. Lo testimoniano i trentacinque e più disegni di legge presentati in Parlamento negli anni. Nessuno, nemmeno uno, è mai giunto alla discussione in Aula. I più fortunati hanno avuto l’onore di essere discussi in Commissione. Gli altri sono rimasti negli archivi di Camera e Senato, nell’attesa, vana, di calendarizzazione.

La deregolazione di fatto del lobbying è il sintomo più diretto – anche se, forse, meno evidente – della crisi dei partiti. E, insieme, dell’ipocrisia tipicamente italiana nell’affrontare problemi la cui soluzione non può essere tirata fuori dal cappello del prestigiatore, ma richiede sacrificio. È il sintomo della crisi dei partiti perché, venuto meno il dialogo tra le strutture di partito e la società civile, il lobbying ne ha raccolto l’eredità. Potendolo fare, sarebbe stato meglio accettare con beneficio d’inventario. In mancanza di regole etiche e regimi di trasparenza, infatti, l’eredità ha prodotto il fenomeno dei faccendieri. Persone che non hanno nulla a che vedere con i lobbisti, se non forse le sedi di lavoro, ma che nell’opinione pubblica sono esattamente la stessa cosa.

È anche il sintomo di un comportamento ipocrita da parte dei partiti. Regolare il lobbying, infatti, non richiede soltanto un intervento sui lobbisti. Sarebbe troppo facile, e scontato. Richiede un intervento serio sui meccanismi di finanziamento ai partiti, sulle modalità attraverso cui i rappresentanti politici si intrattengono con i rappresentanti degli interessi industriali, oltre che una seria riconsiderazione delle spese “di rappresentanza”. Capirete che, vista sotto questa luce, la tanto declamata trasparenza risulta molto meno conveniente di quanto possa sembrare in apparenza.

A conti fatti, l’Italia non ha ancora una legge sul lobbismo. Come non ha una legge chiara sul finanziamento ai partiti, sulla corruzione, sul conflitto d’interessi e su tante altre cose che sarebbe opportuno regolare. E così ci teniamo Bisignani e Papa. Come dire? Politica e lobbying sì, ma all’italiana.

*Autore di un libro sul lobbying in Italia in corso di pubblicazione con Egea-Bocconi