di Alessandro Campi
Gli aderenti alla piattaforma Rousseau si sono dunque espressi: a maggioranza hanno ritenuto che Matteo Salvini non debba essere sottoposto a giudizio per la scelta di aver ritardato lo sbarco dei migranti che si trovavano sulla nave Diciotti. Una scelta che è stata evidentemente giudicata come assunta a difesa di un interesse generale e nel rispetto delle sue competenze di ministro degli interni.
Sulle conseguenze politiche di questa decisione, che sembra scacciare il rischio di una crisi di governo,
di Alessandro Campi

Gli aderenti alla piattaforma Rousseau si sono dunque espressi: a maggioranza hanno ritenuto che Matteo Salvini non debba essere sottoposto a giudizio per la scelta di aver ritardato lo sbarco dei migranti che si trovavano sulla nave Diciotti. Una scelta che è stata evidentemente giudicata come assunta a difesa di un interesse generale e nel rispetto delle sue competenze di ministro degli interni.

Sulle conseguenze politiche di questa decisione, che sembra scacciare il rischio di una crisi di governo, si parlerà a lungo nei prossimi giorni. Ma il punto che merita di essere sottolineato a urne elettroniche appena chiuse è che la votazione di ieri, indipendentemente dal suo risultato, non è stata, come sostenuto dai suoi promotori, un esempio di corretta partecipazione popolare e di vera democrazia, ma il ripetersi dell’equivoco propagandistico-ideologico a partire dal quale il M5S ha costruito la sua immagine come forza che, nel nome di una moralità e di una trasparenza assolute, pretende di perseguire un cambiamento radicale del costume politico e delle regole (inique e obsolete) che governano la politica democratica.

L’impressione è che con i grillini, segnatamente con i loro capi politici e ispiratori ideologici, si sia stati sino ad oggi un po’ troppo indulgenti, scambiando la fondatezza delle istanze sociali di cui sul filo del risentimento si sono fatti interpreti con la plausibilità delle loro ricette politico-istituzionali. O, per meglio dire, che ci sia appuntati nel criticarli sugli aspetti più eclatanti ma paradossalmente più marginali del loro modo d’agire e pensare: dall’approssimazione di cui hanno dato spesso prova molti loro rappresentanti nelle istituzioni ai toni esacerbati (quando non aggressivi e minacciosi) utilizzati nei confronti degli avversari.

Ciò che non funziona e merita di essere rigettato come autenticamente pericoloso è invece il cuore della loro visione politica: l’idea, non priva di venature gnostico-apocalittiche e tipica più di un movimento religioso-settario che di un partito politico in senso proprio, secondo la quale presto entreremo in una nuova era politica della felicità nella quale, grazie al diffondersi su scala globale delle nuove forme di comunicazione digitale, la sovranità politica del popolo potrà finalmente affermarsi attraverso la sovranità tecnologica della rete. Quella rappresentativo-parlamentare rappresenta, ai loro occhi, la preistoria istituzionale della democrazia. Il suo futuro, per molti versi prossimo, è quello che vedrà i governanti coincidere con i governati: da un lato essi diverranno interscambiabili perché l’accesso di tutti al sapere in ogni possibile forma farà venire meno le relazioni gerarchiche e la necessità di delega; dall’altro i cittadini, potendo essere consultati in tempo reale su ogni possibile argomento, potranno dire in qualunque momento ai loro momentanei portavoce cosa fare e come agire.

Peccato solo che la votazione di ieri abbia dimostrato ancora una volta quanto tutto ciò somigli, più che ad avvenire politicamente radioso, ad un potenziale salto nel buio, dopo il quale potremmo ritrovarci all’interno di uno scenario distopico: la tirannia su basi tecnologiche di una minoranza spacciata per una forma di democrazia diretta e assoluta, un potere che si presenta come legittimato dal basso ed espressione della vera volontà popolare che invece viene manipolato e gestito dall’alto.

Già i risvolti tecnico-operativi della consultazione di ieri lasciano non pochi dubbi sulla sua effettiva validità: dal ritardo nell’inizio delle operazioni di voto all’impossibilità per molti di accedere alla piattaforma e di esprimere la propria opinione. Nel prossimo futuro si potrà certamente fare sempre meglio dal punto di vista tecnologico. Resta il problema che più si affineranno le procedure di consultazione-comunicazione on line più si porrà il problema di chi le controlla e gestisce. Ci si può fidare di una società privata che peraltro in questo caso esercita informalmente un ruolo politico? Come scacciare il sospetto che la gestione tecnica del processo di voto nasconda in realtà il perseguimento di obiettivi politici? Quali garanzia abbiamo che il risultato finale non sia stato artefatto o aggiustato? E può una minoranza infima, di cui nemmeno si conosce il numero, produrre con le sue scelte   conseguenze politiche potenzialmente assai grandi?  Se la democrazia ha che fare con la trasparenza delle procedure e con la definizione di regole che siano per quanto possibile pubbliche e condivise qui siamo nel regno dell’opacità.

Un’ambiguità, quella grillina, che italianamente sconfina nella furbizia. Come sottrarsi al sospetto che piuttosto che rilevare le opinioni del prossimo si ambisca invece ad orientarle secondo i propri convincimenti e interessi? In questo caso il gioco era persino troppo scoperto. Non c’è bisogno di essere esperti di comunicazione per sapere che il modo con cui un quesito viene formulato può precostituire la risposta o comunque condizionarla. E dunque: chi e con quali finalità ha messo a punto la domanda che gli iscritti alla piattaforma Rousseau si sono trovati dinnanzi?

La democrazia rappresentativa tanto biasimata dai grillini è stata inventata non solo per una questione di spazi e numeri: per l’impossibilità cioè di dare simultaneamente voce ad ogni singolo individuo quando una comunità diviene talmente grande da non poter più essere riunita all’interno di una piazza. Essa è nata anche per sottrarre le deliberazioni all’influsso dell’emotività popolare, nella presunzione che una decisione meditata, basata sulla conoscenza della materia sulla quale si è chiamati a pronunciarsi e frutto di una discussione per quanto possibile approfondita sia, per quanto mai perfetta, comunque da preferire ad una che nasca da una volontà puramente irrazionale. I consessi rappresentativi spesso sbagliano, le piazze tumultuose sempre.

La democrazia dovrebbe avere a che fare con la corretta informazione e la conoscenza dei dossier. Quanti tra quelli che ieri hanno votato avevano una cognizione anche minima delle carte relative alla richiesta di autorizzazione a procedere avanzata nei confronti di Matteo Salvini dal Tribunale dei ministri di Catania? L’impressione è che quella voluta dai capi del M5S sia stata, nella migliore delle ipotesi, una consultazione interna sulla necessità di continuare o meno l’attuale alleanza di governo con la Lega, o magari un modo per mettere quest’ultima sotto pressione. Si è insomma richiesto un giudizio agli iscritti su un tema diverso da quello esplicitamente indicato. Operazione in sé legittima, ma per giustificarla non c’è alcun bisogno di scomodare i massimi sistemi.

Senza contare che questi continui “appelli al popolo”, al di là dell’enfasi retorica che li accompagna, rappresentano per chi li propone un espediente politicamente deresponsabilizzante. Ci si rivolge ai cittadini-elettori (in questo caso agli iscritti nemmeno ad un partito, ma ad una piattaforma informatica) perché evidentemente non si ha la capacità e la forza di decidere come il ruolo ricoperto richiederebbe. Questa non è l’apoteosi della democrazia, ma la sua caricatura: ci si nasconde dietro il verdetto del popolo per mascherare la propria confusione.

Il problema è che le distorsioni e inefficienze che oggi caratterizzano la democrazia rappresentativa  non sono un argomento sufficiente per dichiararla morta o per volerla abolire. Specie se ciò che rischia di prenderne il posto è una democrazia puramente virtuale e immaginaria, o peggio un’autocrazia che in nome del popolo finisce per opprimerlo.

 

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