di Fabio Corigliano
 
Mattia Volpi, Il suddito democratico. Libertà e uguaglianza nel pensiero giuridico-politico di Tocqueville, Mucchi Editore, Modena, 2021, 275 pp.
Il volume, pubblicato all’interno della collana “Prassi sociale e teoria giuridica” diretta da Thomas Casadei e Gianfrancesco Zanetti, presenta un’ampia trattazione del pensiero politico e giuridico di Alexis de Tocqueville.
Gli elementi che appaiono ad una prima lettura più evidenti e che forniscono una chiave interpretativa dell’intero lavoro – come si evince già a partire dal sottotitolo – sono,
di Fabio Corigliano

 

Mattia Volpi, Il suddito democratico. Libertà e uguaglianza nel pensiero giuridico-politico di Tocqueville, Mucchi Editore, Modena, 2021, 275 pp.

Il volume, pubblicato all’interno della collana “Prassi sociale e teoria giuridica” diretta da Thomas Casadei e Gianfrancesco Zanetti, presenta un’ampia trattazione del pensiero politico e giuridico di Alexis de Tocqueville.

Gli elementi che appaiono ad una prima lettura più evidenti e che forniscono una chiave interpretativa dell’intero lavoro – come si evince già a partire dal sottotitolo – sono, da un lato, il tentativo di far scorrere l’intero percorso di analisi all’interno della dialettica libertà/uguaglianza, e dall’altro il continuo dialogo tra l’opera tocquevilliana e alcuni classici del pensiero politico, filosofico, giuridico e, in taluni casi, anche letterario: ne sono un esempio i densi riferimenti a Niccolò Machiavelli, Montesquieu, Blaise Pascal, Max Weber, François-René de Chateaubriand, solo per menzionare gli autori più citati.

Per quanto riguarda il primo aspetto, Volpi (nella foto, in basso) chiarisce, fin dalle prime righe dell’Introduzione, che “libertà e uguaglianza, in Tocqueville, non soltanto non rappresentano un felice binomio, ma sono principi antitetici, il cui incontro/scontro si rifletterebbe nella difficile transizione dal mondo del passato aristocratico a quello del futuro interamente democratico” (p. 9). Questa contrapposizione assume, secondo l’ipotesi interpretativa proposta, i caratteri di una precisa filosofia della storia che si estrinseca nell’idea per la quale tutte le comunità umane sono irresistibilmente condotte attraverso un percorso di mutamenti politici, sociali e antropologici alla democratizzazione totale (p. 13).

Tale convinzione tocquevilliana, maturata sin dal soggiorno negli Stati Uniti, è il leit motif che conduce l’Autore attraverso l’analisi del principio di uguaglianza. O meglio, che permette all’Autore di notare come Tocqueville si faccia interprete di una tematizzazione della storia occidentale secondo la quale “dall’XI secolo in poi ogni accadimento avrebbe favorito l’abbattimento delle differenze tra gli uomini” (p. 14). Si tratta di un processo irrefrenabile che assume i caratteri deterministici di un disegno quasi-provvidenziale, con il quale condividerebbe i tratti dell’universalità, della lunga durata e dell’autonomia dall’intervento umano, in una cornice che potrebbe definirsi per molti versi montesquieuviana, dal momento che passa attraverso il tema del rapporto tra libertà e necessità. È del resto lo stesso Volpi a ricordare come a partire dalla pubblicazione della Démocratie, il riferimento a Montesquieu fosse piuttosto diffuso tra i suoi commentatori — ed è emblematico in tal senso il commento di John Stuart Mill (riportato a p. 111) o di Pierre Paul Royer-Collard (pp. 111-2), che hanno visto in Tocqueville il successore di Montesquieu. Ma al di là di un giudizio sommario sulla loro possibile connessione, come aveva già notato Melvin Richter a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la letteratura non ha dedicato molto spazio alla comparazione tra i due autori, e lo stesso Tocqueville non ha mai confessato esplicitamente il proprio debito (pp. 113-4).

È quindi merito di Volpi di aver offerto un’ampia disamina sul loro confronto, dal quale emergono rilevanti affinità e un’ammirazione per l’opera di Montesquieu (mai del tutto ammessa), che ha evidentemente costituito un termine di paragone fondamentale, a partire dalle costanti storico-filosofiche che formano la trama delle Considérations sur les causes de la grandeur des romains, et de leur décadence. È infatti in quel celebre testo del 1734 che Montesquieu ha affrontato il tema del passaggio necessario dalla grandezza alla decadenza, interpretando e magistralmente portando a compimento una meditazione che da Polibio a Bodin ha coinvolto l’evoluzione del pensiero politico europeo intorno al tema della corruzione e della crisi, sviluppando uno “schema ermeneutico pessimista” (p. 113) che accomuna i due Autori e di cui Tocqueville si è fatto interprete.

L’irresistibilità di questo decorso connaturato alla storia delle forme politiche e istituzionali occidentali permette peraltro di concepire l’intera opera tocquevilliana come un affresco risultante da un’unica preoccupazione storico-filosofica, o se si vuole storico-metafisica: quello che in un autore illuminista come Immanuel Kant funge da bandiera del progresso della civiltà, in Tocqueville rappresenta, invece, il fulcro di una riflessione pessimista sul futuro dell’umanità. Infatti nella misura in cui il percorso dell’uguaglianza approfondisce il suo attaccamento/attecchimento alle realtà politiche e istituzionali, è la libertà a venire a mancare, in una rappresentazione della democratizzazione universale che ha molti punti in comune con la successiva dottrina weberiana della “burocratizzazione universale”, cui si riferisce lo stesso Volpi nel quarto capitolo del libro (in part. alle pp. 239-242).

Sia le due opere principali di Tocqueville (L’antico regime e la rivoluzione e La democrazia in America), nonché tutti gli altri scritti devono essere letti, secondo Volpi, nell’ottica di tale evoluzione “morale” dei popoli che segue un percorso lineare, le cui “stazioni principali” sono rappresentate dallo sviluppo del “criticismo” attraverso l’opera di Martin Lutero, René Descartes e Voltaire e condurrebbe diritto verso una nuova epoca della democratizzazione che coincide con l’individualismo razionalistico, discostandosi tuttavia da quella che Benjamin Constant definiva la “libertà dei moderni” (cfr. pp. 17 e 209).

Si assiste quindi alla proposizione di un collegamento assai consistente (ancora una volta, anche in un’ottica weberiana), tra “l’affermazione del mito del pensiero razionale e la realizzazione dell’eguaglianza delle condizioni, nelle sue ripercussioni morali e sociali” (p. 16); tale ricostruzione, inoltre permette di cogliere il pensiero politico tocquevilliano in termini specificamente antimarxisti, dal momento che ogni spiegazione materialistica della storia non riuscirebbe a fornire una realistica interpretazione dell’evoluzione storica stessa, tanto più che i cambiamenti e le trasformazioni, per potersi realizzare necessitano di immaginazione, idee e passioni umane, che ne sono, appunto, i motori (cfr. p. 42). Emerge in tal modo un altro fondamentale aspetto del determinismo tocquevilliano: quella filosofia della storia, che ha una natura quasi-provvidenziale inarrestabile e irresistibile, dipende da un altrettanto ineluttabile progresso morale che ha condotto, attraverso l’immaginazione, le idee e le passioni ad uno sviluppo incontrollato dell’ideale egualitario. Questo non avrebbe travolto solamente la libertà rimpianta da Tocqueville (cfr., in part., pp. 18-29), ma ha altresì prodotto un mito razionalista, quello dell’individualismo, che nel lungo periodo potrebbe erodere la stessa consistenza dell’uguaglianza attraverso la produzione di un “nuovo tipo umano, destinato a essere sottomesso a una forma inedita di dominio: quello dello stato totale accentrato, burocratizzato e coercitivo, un potere che assiste e sostiene, ma anche opprime e tormenta” (p. 21).

Tutto questo non conduce, tuttavia, Tocqueville a esprimere un antimodernismo reazionario, nella misura in cui la nostalgia per il passato aristocratico assume un aspetto non solamente scientifico, ma anche esistenziale, che Volpi sottolinea in alcune pagine centrali del libro (pp. 135-160). L’importanza di questi riferimenti al Tocqueville uomo è fondamentale, infatti, per intendere sia le matrici culturali sia quelle intime, esistenziali e biografiche della sua opera. Sotto questo profilo, non si potrebbe comprendere la sua filosofia della storia se non a partire dalle influenze esercitate da Pascal, da un lato, e Chateaubriand, dall’altro.

L’influenza pascaliana ha effetti morali che possono essere descritti nei termini di un continuo “sentimento di inadeguatezza e di tormento che si riflette in uno stato di tristezza ineliminabile” (p. 137); con Chateaubriand, invece, l’affinità non è solo di carattere parentale (era lo zio dello scrittore francese), ma altresì di tipo esistenziale: l’autore di Atala (1801) e René (1805, ma già pubblicato all’interno del Génie du Christianisme, ou beautés de la religion chrétienne del 1802) infatti aveva evidentemente prodotto nel giovane Tocqueville un desiderio di emulazione, tanto da replicare il suo viaggio in America alla scoperta degli stessi territori selvaggi, solitari e incontaminati.

Questi due autori insinuano nell’animo di Tocqueville sentimenti diversi ma molto vicini: la malinconia e il malessere per il declino del mondo aristocratico, il desiderio di comprendere quale sia il suo stesso ruolo nel mondo, il senso del fallimento e quindi il ripiegamento nello studio della storia (p. 159) e, altresì, la convinzione che i destini individuali siano dominati da un elemento irrazionale che guida la storia, qual è, ad esempio, la passione per l’uguaglianza a discapito della libertà (pp. 148-9). Insieme producono la tensione inesausta per l’approfondimento di quelle dinamiche storiche che hanno evidentemente trasformato e peggiorato non solamente la sua stessa vita, ma che si preparano a trasfigurare inevitabilmente e irresistibilmente la storia e l’esistenza dell’intero genere umano.

Uno dei “dialoghi” più interessanti proposti dal volume in esame, in questo senso, è proprio quello tra Tocqueville e Weber, non molto trattato nella letteratura critica, ma che, sulla scorta delle osservazioni di Volpi, meriterebbe sicuramente un separato e serrato approfondimento storico-dottrinario. Si ritrovano, infatti, nell’opera weberiana alcuni accenti (pessimistici) che possono essere sicuramente riconducibili alle analisi tocquevilliane, in particolar modo sul tema della burocratizzazione come effetto primario della modernizzazione. In entrambi gli autori essa assume una connotazione negativa in quanto mette a repentaglio la libertà degli uomini costretti a vivere in una forma di dominio in grado di cancellare le differenze individuali al fine di produrre un’omogeneizzazione politica su cui insiste l’istanza di controllo del cosiddetto “dispotismo democratico” (p. 239).

Del resto già lo studio di Machiavelli ha condotto evidentemente Tocqueville a interrogarsi sul rapporto tra necessità e libertà nell’ottica dell’anaciclosi polibiana approfondita dal Segretario Fiorentino all’alba di una nuova epoca del mondo, quella stessa nella quale si possono trovare i fermenti e i frammenti della storia irreversibile dell’uguaglianza così come tratteggiata a partire dall’analisi de L’antico regime e la rivoluzione. È in Machiavelli che si trovano allo stesso tempo l’idea della decadenza necessaria, del deterioramento e della corruzione delle opere umane e altresì del realismo politico, tematiche assolutamente centrali anche nel pensiero tocquevilliano (cfr. p. 99). Nella prospettiva tocquevilliana, così come emerge dalle pagine del libro, il mondo sarebbe connotato da una necessaria e irreversibile tendenza alla decadenza, che deve essere ricercata nell’abbandono della libertà a favore dell’uguaglianza.

In ultima istanza, Tocqueville e Montesquieu sembrerebbero incontrarsi nella lotta a qualsiasi forma di dispotismo (pp. 113 e 117), e nell’interesse nei confronti di una continua comparazione tra i modi di vita del vecchio continente e quelli che si trovano al di fuori del “mondo occidentale” (p. 117), seppure in un’ottica non del tutto etnocentrica, ma piuttosto sociologica, se solo si bada all’attenzione da entrambi dimostrata nei confronti del “doppio binario in cui si articola la vita delle comunità: la dimensione profonda della società civile, con la sua rete di elementi materiali e spirituali, e quella più esteriore della politica, che della prima rappresenta una sorta di riflesso razionale e intelligibile” (p. 126).

 

 

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)