di Alessandro Campi
La corsa di Marco Minniti verso la segreteria del Partito democratico è stata viziata sin dall’origine da troppi equivoci. Era il candidato dei renziani, ma non voleva pubblicamente risultare come un candidato renziano per timore di scoprirsi troppo alla sua sinistra. Era il candidato dei renziani, senza essere mai stato un renziano per mentalità, formazione e stile. Era il candidato dei renziani, ma Renzi, fino a prova contraria il capo dei renziani,
di Alessandro Campi

La corsa di Marco Minniti verso la segreteria del Partito democratico è stata viziata sin dall’origine da troppi equivoci. Era il candidato dei renziani, ma non voleva pubblicamente risultare come un candidato renziano per timore di scoprirsi troppo alla sua sinistra. Era il candidato dei renziani, senza essere mai stato un renziano per mentalità, formazione e stile. Era il candidato dei renziani, ma Renzi, fino a prova contraria il capo dei renziani, non lo ha mai considerato il suo candidato, anche perché probabilmente da un pezzo non considera più il Pd il suo partito. Era il candidato dei renziani, ma i renziani in realtà non avevano grande interesse e voglia di sostenerlo, impegnati come sono (giustamente) a sostenere e assecondare Renzi nei suoi propositi di revanche politica.

Messa in questi termini, sembra una filastrocca. In realtà, è solo il racconto di un pasticcio che non poteva finire altrimenti. Nell’annunciare la sua decisione – naturalmente sofferta, meditata e assunta per senso di responsabilità: in questo si vede forte l’impronta della vecchia scuola comunista – Minniti ha spiegato come il suo passo indietro, maturato anche perché ormai aveva capito che avrebbe malamente perso una gara che pensava di vincere facilmente, dovrebbe favorire la scelta di una leadership forte e legittimata (leggi, a questo punto, Zingaretti) capace di rendere il Pd un partito nuovamente forte e competitivo.

Ma il rischio evidente è che accada esattamente il contrario. Che si inneschi cioè una spirale dissolvente alla fine della quale avremo un Pd dimezzato, se davvero Renzi si farà un partito tutto suo, e un’opposizione all’attuale governo ancora più frammentata e debole di quanto già non sia. Non si capisce se quella renziana sia una strategia, dettata dalla convinzione che l’affermazione dei populismi ha reso necessaria la creazione di una nuova offerta politica, o una vendetta contro chi all’interno del Pd non ha mai smesso di combatterlo sino a costringerlo alle dimissioni. Pur avendo affermato, ieri nuovamente, di non voler giocare la parte del burattinaio nell’imminente congresso in realtà pare che abbia fatto proprio questo, col suo consueto mix di cinismo e abilità tattica. Prima ha blandamente adombrato un sostegno a Minnitti, mandando in avanscoperta i suoi uomini più fidati alla stregua di garanti, poi ha fatto chiaramente intendere che i renziani alle primarie non avranno alcun candidato né ufficiale né ufficioso. Col risultato di lasciare campo libero ad una segreteria che, per dirla in soldoni, segnerà l’oggettiva regressione del Pd al Pds post-comunista.

Un ritorno ideologico-organizzativo a sinistra che se da un lato certifica la fine del progetto democratico, dall’altro è esattamente quel che serve a Renzi per giustificare la sua decisione di battere strade nuove mettendosi in proprio. Tanto più se si considera l’orizzonte strategico del Pd a guida Zingaretti o Martina: a leggere certe loro dichiarazioni il massimo cui si aspira sembrerebbe essere un’alleanza (per definizione in condizione di subalternità) con i grillini nell’eventualità che l’attuale maggioranza si sfasci. Davvero poca cosa per un partito che ambisce a rappresentare la parte migliore, quella moralmente più sana e politicamente più responsabile, del Paese. Ufficialmente ci si presenta come un’alternativa radicale ai populismi di qualunque colore, nella sostanza si dà l’impressione di voler tornare al potere a qualunque costo.

Ciò non toglie che anche la strategia di rottura renziana – prima nel Pd, ora contro il Pd – contenga a sua volta rischi e incognite. Un nuovo partito di renziani doc sarebbe null’altro che una scissione a destra che al primo appuntamento elettorale potrebbe fare la triste fine di quella tentata a sinistra da Bersani, Grasso e soci. Un nuovo partito – riformista e genericamente progressista, anti-populista per definizione, post-ideologico e apertamente europeista – avrebbe senso se riuscisse a realizzare alleanze sociali trasversali, mettendo insieme il disagio politico che effettivamente serpeggia in molti ambienti nei confronti dell’ircocervo giallo-verde. Ma è davvero Renzi l’uomo giusto per tessere una simile tela? Il solipsismo e un eccesso di verticismo sono sempre stati i suoi difetti peggiori, come la tendenza a dividere più che a unire.

Ma i dubbi riguardano non solo il suo carattere, ma anche i suoi potenziali alleati nella nuova partita. Un Nazareno bis o tris o quater, insomma la nascita di un fronte moderato ampio insieme a Berlusconi, lascia davvero il tempo che trova, visto che il desiderio nemmeno tanto segreto del Cavaliere è di potersi un giorno ricongiungere con la Lega salviniana. Resta l’ipotesi di una diaspora berlusconiana, disposta a dividere il rischio di un nuovo partito insieme a Renzi. Ma quanto valgono politicamente (dunque elettoralmente) gli uomini di Berlusconi senza Berlusconi?

La stessa domanda che si potrebbe fare con riferimento ad altri potenziali compagni di strada, ad esempio Carlo Calenda: la politica italiana dovrebbe aver insegnato da un pezzo quanto la popolarità mediatica sia spesso inversamente proporzionale alla forza politica. Piazze piene, urne vuote, si diceva un tempo. Titoloni e interviste sui media, ma scarso seguito popolare, si potrebbe dire oggi.

C’è poi il fronte imprenditoriale, effettivamente in fibrillazione, come lo sono pure settori non poco consistenti del mondo cattolico. Ma anche in questo caso, quanto i vertici di tali mondi – Confindustria e Chiesa – orientano e interpretano le rispettive basi in questa fase storica confusa e convulsa? E sino a che punto il malumore contro il governo può tradursi nella voglia effettiva di assecondare e sostenere un nuovo progetto politico-partitico, specie dopo il fallimento di molti tentativi in parte simili (Monti ancora oggi docet)?

Si dice che Renzi voglia in realtà portare la sua sfida sulla scena europea, perché è a quel livello che si combattono i populismi a loro volta ormai divenuti una forza continentale. Ma il faro ideologico e il garante politico di un’aggregazione transazionale, né di destra né di sinistra, contro il nazional-populismo, vale a dire Emmanuel Macron, è acciaccato e debole come nessuno avrebbe mai immaginato sei mesi fa. L’operazione di un fronte comune anti-sovranista in sé potrebbe anche essere interessante, ma parte oggettivamente in salita. Su chi contare in Europa, per una simile aggregazione, oltre Macron in Francia e Ciudadanos in Spagna? Spezzoni nazionali ce ne sono tanti, ma quanto può dare la loro somma? Senza contare l’implausibilità di un’alleanza allargata ai Verdi e la nessuna voglia che hanno le famiglie politiche storiche europee (popolari, socialisti, liberali) di mettere la testa sul ceppo del boia a vantaggio di un confuso post-novecentismo politico.

Insomma, se le primarie e il congresso dovevano servire a rilanciare il Pd dopo la sconfitta traumatica dello scorso marzo quello che potrebbe derivarne, con la vittoria della sinistra nella corsa per la segreteria e l’uscita a quel punto inevitabile dei renziani, è un Pd ancora più debole. Ma, sostiene qualcuno, almeno si sarà fatta chiarezza. Forse l’equivoco vero, un’autentica e beffarda ironia della storia, è che Renzi, con le idee che ha sempre avuto in testa, possa essere arrivato alla guida di un partito che semplicemente non era il suo.

 

 

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