di Alessandro Campi
Quello presieduto da Giuseppe Conte è un governo programmaticamente debole reso politicamente forte dall’emergenza sanitaria. E da considerare inamovibile sino a che quest’ultima non sarà terminata (da qui la tentazione, che si potrebbe avere, di protrarla oltre ogni limite ragionevole, giocando in chiave allarmistica sulla paura ancora a fior di pelle degli italiani). Diverso sarà il discorso quando, ridotte o terminate le preoccupazioni per la salute collettiva, ci si dovrà confrontare con l’emergenza sociale prodotta dalla crisi economica: ma parliamo del prossimo settembre-ottobre,
di Alessandro Campi

Quello presieduto da Giuseppe Conte è un governo programmaticamente debole reso politicamente forte dall’emergenza sanitaria. E da considerare inamovibile sino a che quest’ultima non sarà terminata (da qui la tentazione, che si potrebbe avere, di protrarla oltre ogni limite ragionevole, giocando in chiave allarmistica sulla paura ancora a fior di pelle degli italiani). Diverso sarà il discorso quando, ridotte o terminate le preoccupazioni per la salute collettiva, ci si dovrà confrontare con l’emergenza sociale prodotta dalla crisi economica: ma parliamo del prossimo settembre-ottobre, quando finiti i sussidi pubblici i nodi verranno fatalmente al pettine.

Ci voleva dunque poco per capire che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che in ogni altra congiuntura politica sarebbe stato giubilato dalla sua stessa maggioranza, in questa non poteva che farla franca. E infatti le due mozioni di sfiducia nei suoi confronti presentate dall’opposizione – quella del centrodestra e quella della Bonino – sono state respinte dal voto nell’aula del Senato di ieri pomeriggio: la prima con 160 voti contrari, la seconda con 150. E chissà che anche le opposizioni, insieme al ministro, non abbiano tirato un sospiro di sollievo: hanno fatto il loro mestiere, hanno rimediato una bella figura coi loro elettori, ma hanno anche evitato il rischio di una crisi di governo per affrontare la quale non avevano alcuna soluzione pronta o ragionevole, considerando anche l’impossibilità di andare al voto anticipato.

Le attese per la decisione sofferta che avrebbe preso Matteo Renzi erano decisamente esagerate (o forse soltanto ben architettate dal diretto interessato). Quale occasione migliore di questo psicodramma tra giustizialisti per ricordare ai due alleati maggiori, M5S e Pd, che i pochi voti di Italia Viva sono in realtà quelli decisivi? Renzi in queste settimane ha davvero coltivato il sogno d’un esecutivo politico di larghe intese, nel quale il suo ruolo, rispetto ad oggi, potrebbe essere ancora più condizionante. Ma questo disegno, lui lo sa bene, non si è mai concretizzato nemmeno lontanamente, non foss’altro per il disinteresse mostrato dal capo dello Stato verso un simile scenario. Far cadere il governo, senza avere un’alternativa pronta e non potendo affrontare il rischio di elezioni anticipate che potrebbero spazzarlo via, sarebbe stata dunque un’insensatezza. Meglio trattare qualche posto o incarico futuro direttamente con Conte in cambio della fiducia confermata a Bonafede: esattamente quello che al posto di Renzi avrebbero fatto tutti coloro che in pubblico gli fanno la morale.

Il fatto che l’assalto al governo sia fallito non vuol però dire che esso sia stato senza effetti politici anche per gli altri due grandi partiti che lo sostengono.

Positivo, nell’immediato, il saldo del M5S. Salvando il loro capodelegazione al governo, dopo che tutte le componenti del partito (ma sì, chiamiamolo partito) avevano fatto quadrato intorno al lui, i grillini hanno mandato un segnale all’esterno di compattezza dove averne mandati numerosi di disunione e litigiosità nel corso degli ultimi mesi. Adesso la loro partita, decisiva sul piano del consenso da riconquistare, si sposta su come e dove spendere i molti soldi che, presto o tardi, arriveranno dall’Europa. Da come sono stati indirizzati gli interventi economici previsti dal decreto Rilancio (da modificare e approvare in Parlamento) si evince bene la grezza filosofia sociale che li ispira: “andare incontro al popolo che soffre”, senza preoccuparsi di come dall’assistenzialismo di Stato (doveroso in questa fase per molte categorie sociali) si possa passare ad una politica industriale capace di creare sviluppo e innovazione. Che è esattamente il problema dell’Italia nell’immediato futuro.

Meno chiaro il bilancio politico per il Pd. I suoi vertici sanno benissimo quanto grandi siano le distanze dal M5S e quanto alto sia stato, sino ad oggi, il prezzo della loro collaborazione al governo. Basti pensare ai cedimenti dei democratici proprio in materia di giustizia (segnatamente sul tema delle prescrizioni). Ma in cambio di cosa essi, insieme ad altri, sono stati sopportati? Della governabilità e della stabilità, certamente, divenute un bene tanto più prezioso in tempi calamitosi come quelli che stiamo vivendo. Ma anche il senso di responsabilità politica, come la pazienza umana, rischia di avere un limite superato il quale si converte nel suo contrario. Si può tenere in vita un governo nel quale non si crede, con un alleato del quale non ci si fida, senza un programma chiaro da realizzare insieme, solo per senso dello Stato?

Probabilmente il Pd ritiene, difendendo Conte e il suo governo da ogni attacco, di poter passare prima o poi all’incasso politico. In fondo il calcolo segreto dei democratici, quando, col pretesto di dover sbarrare la strada a Salvini, decisero di allearsi con chi li aveva sempre sbertucciati, fu proprio questo: riprendersi poco alla volta i voti di sinistra finiti negli anni, vuoi per protesta verso quest’ultima, vuoi per l’abbaglio di aver considerato il grillismo una costola della sinistra, nel calderone del populismo. Se vuoi soffocare un nemico prova ad abbracciarlo stretto con tutta la forza di cui disponi.

Ma oltre a capire quanto lungo sarà quest’abbraccio, durante il quale per definizione nessuno dei due può muoversi o agire, col rischio dunque dell’inazione politica, ancora più interessante è chiedersi chi, alla fine di esso, risulterà soffocato. Per quanto in questi mesi in crisi sul piano organizzativo e progettuale, stante anche la strana latitanza mediatica del suo guru-fondatore, il grillismo è una mentalità politica ovvero uno stile comunicativo – nel segno dell’invettiva contro gli avversari, del risentimento sociale e della facile demagogia – che ha fortemente pervaso la scena pubblica italiana e tutti i suoi attori. Se chi va con lo zoppo impara a zoppicare, anche politicamente, cosa potrebbe accadere al termine di questa forzata convivenza al governo alle ambizioni riformiste e modernizzatrici del Pd, al suo voler essere il partito per eccellenza delle istituzioni, alle sue critiche al giustizialismo mediatico, alla sua vocazione europeista? Nella migliore delle ipotesi potrebbero risultare fortemente annacquate, nella peggiore potrebbe materializzarsi quella che era invece la segreta speranza di Beppe Grillo quando, buttata a mare l’alleanza con la Lega, aprì all’accordo col Pd: creare, per fusione con quest’ultimo, la nuova sinistra del futuro, anti-moderna, apocalittica, post-capitalista, giustizialista, post-parlamentare e integralmente immersa nell’universo digitale.

Il governo è salvo, Conte è soddisfatto, il M5S si frega le mani, Renzi forse otterrà qualcosa, ci si chiede solo quando il Pd – visto che la ‘grande paura’ della pandemia non potrà durare all’infinito – riterrà giunto il momento di staccare la spina e di aprire scenari nuovi.

 

*Editoriale apparso su ‘Il Messaggero’ e ‘Il Mattino’ del 21 maggio 2020

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