di Alessandro Campi
In tempi di populismo dilagante e di democrazia declinante, un po’ ovunque nel mondo, cade bene il centenario dalla fondazione – il 18 gennaio del 1919, ad opera di Luigi Sturzo, con la diffusione del celebre «Appello a tutti gli uomini liberi e forti» – del Partito popolare italiano: un esperimento nel complesso breve e destinato allo scacco (con lo scioglimento forzato nel 1926 imposto dal fascismo e con la Chiesa che aveva nel frattempo scelto la strada del compromesso col regime mussoliniano),
di Alessandro Campi

In tempi di populismo dilagante e di democrazia declinante, un po’ ovunque nel mondo, cade bene il centenario dalla fondazione – il 18 gennaio del 1919, ad opera di Luigi Sturzo, con la diffusione del celebre «Appello a tutti gli uomini liberi e forti» – del Partito popolare italiano: un esperimento nel complesso breve e destinato allo scacco (con lo scioglimento forzato nel 1926 imposto dal fascismo e con la Chiesa che aveva nel frattempo scelto la strada del compromesso col regime mussoliniano), ma destinato a lasciare un traccia profonda nella politica non solo italiana, se è vero che il popolarismo cristiano, nelle sue diverse articolazioni nazionali, è ancora oggi in Europa la famiglia politica maggioritaria (e tale dovrebbe restare anche dopo il prossimo rinnovo del Parlamento di Strasburgo).

In questi tempi confusi e confusionari, il populismo come stile e ideologia e il popolarismo inteso come dottrina e prassi politica possono persino sembrare parenti stretti, avendo entrambi il “popolo” come matrice terminologica e come base simbolico-concettuale. In realtà, un abisso (non solo temporale) li separa, come hanno ben spiegato due valenti studiosi, Flavio Felice e Maurizio Serio, in un loro scritto finalizzato proprio a distinguere tra i due concetti. Nel primo caso, si pretende di rappresentare il popolo nella sua interezza e nella sua volontà autentica e originaria, immaginandolo come qualcosa di omogeneo dal punto di vista sociale e degli interessi, ma di fatto privandolo di qualunque sostanza e particolarità storico-sociale. Nel secondo, il popolo è concepito non come un blocco organico, ma come una pluralità dinamica di forze che tocca alla politica – e segnatamente ai partiti politici che tali forze rappresentano – ricomporre entro una cornice per quanto possibile unitaria e solidale.

Ma per capire la fine, cioè la politica odierna sempre più caratterizzata da leadership seduttive e da masse amorfe, dall’uso di messaggi ipersemplificati e spesso manipolatori, da un eccesso di demagogia e dalla rinuncia a qualunque ‘tavola dei valori’, dallo squagliamento delle tradizionali strutture di partito e delle classiche forme di rappresentanza politico-sociale, bisogna partire dall’inizio, dalla nascita del popolarismo inteso non come anticipatore o apripista, per quanto involontario, del populismo odierno, ma come sua originaria e sempre attuale antitesi o alternativa al tempo stesso politica e culturale. Se quest’ultimo manifesta spesso pericolose derive autoritarie, il primo presenta da sempre una matrice liberale e personalista, oltre a nutrire una sana diffidenza verso tutte le forme politiche collettive e assolutizzanti (lo Stato, la Società, la Classe, il Partito e naturalmente il Popolo).

Bisogna dunque partire da quando nella testa di un giovane sacerdote siciliano, originario di Caltagirone (dove era nato nel 1871), maturò il progetto d’un partito che permettesse ai cattolici italiani di prendere finalmente parte alla vita pubblica della nazione, superando definitivamente il “non expedit” pronunciato da Pio IX nel 1874 e che per decenni aveva impedito loro di riconoscersi nello Stato unitario nato dalle lotte risorgimentali e di partecipare alle competizioni elettorali come forza organizzata (se non a livello amministrativo), ovvero di farlo a titolo personale e sempre in posizione subordinata rispetto al blocco liberal-moderato o clerico-conservatore col quale ci si alleava.

Le esperienze culturali e politiche-associative maturate tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del nuovo secolo nel segno del cristianesimo sociale – dall’Opera dei Congressi alla Democrazia cristiana di Romolo Murri, ai primi embrioni di sindacalismo ‘bianco’ ispirati dalla Rerum Novarum di Leone XIII – si erano rivelate inadeguate all’evoluzione della politica democratica, sempre più segnata dall’inedito protagonismo delle masse e dunque dalla necessità di superare l’assetto costituzionale oligarchico proprio dello Stato liberale. Sturzo lo aveva capito sin dal 1905, quando in suo discorso – anche alla luce della sua esperienza di amministratore locale – aveva invocato l’urgenza di un partito dei cattolici “autonomo, libero, forte, che si avventuri nelle lotte della vita nazionale”; in grado quindi di utilizzare anch’esso, come gli altri partiti già esistenti, “le armi moderne della propaganda, della stampa, della organizzazione, della scuola, delle amministrazioni”, dando al tempo stesso voce politica alle classi popolari ma in una prospettiva diversa da quella antagonistica e conflittuale tipica della tradizionale socialista o anarchica.

Un’urgenza divenuta assoluta all’indomani della fine della Grande Guerra, i cui effetti potenzialmente rovinosi sull’ordine internazionale rappresentano non a caso la preoccupazione fondamentale con cui si apriva l’Appello del gennaio 1919. Ma quello fondato da Sturzo – che ne sarebbe stato segretario sino al 1923 – non fu un “partito cattolico”, bensì un partito di cattolici; ispirato ai valori cristiani, ma tutt’altro che confessionale, o peggio clericale.  Al suo primo congresso svoltosi a Bologna nel giugno del 1919, Sturzo avrebbe chiarito il punto con queste parole: “Non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione… Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione ed abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione…”

Quanto agli aspetti dottrinari del popolarismo, che Sturzo avrebbe affinato nel corso dei decenni (dagli anni dell’esilio, iniziato nel 1924 e terminato nel 1946, sino alla morte avvenuta a Roma nell’agosto 1959, essendo nel frattempo divenuto una personaggio scomodo per la rinata Democrazia cristiana e una coscienza critica dell’Italia repubblicana, molto rispettato ma poco ascoltato), qualificanti e ancora di attualità sono la critica allo statalismo centralizzatore; il riconoscimento del nesso democrazia-religione (intuito già da Tocqueville) pur nel contesto di una visione laica e secolare della politica; la centralità attribuita alle classi medie al fine di costruire una società “ordinata”, vale a dire stabile, e “progressiva” (sarà un caso ma la proletarizzazione del ceto medio ha coinciso con la destabilizzazione delle democrazie); la libertà (di fede, di propaganda, di opinione, di insegnamento) come valore costituzionale supremo; il rilievo attribuito alle autonomie locali e ai corpi sociali intermedi; l’equilibrio necessario tra difesa dell’interesse nazionale e partecipazione alla comunità internazionale.

Il popolarismo sturziano ha naturalmente conosciuto oscillazioni e contraddizioni. E il popolarismo come esperienza e dottrina non si esaurisce con il pensiero di Sturzo. Ma la denuncia di quest’ultimo, in un discorso pronunciato nel gennaio 1922, della politica divenuta “arte senza pensiero” e lasciata alla mercé dei più audaci e degli avventurieri, la descrizione di un’Italia politica che si risveglia da un lungo sonno per scoprire “che il Parlamento non c’era, che gli uomini politici non c’erano, che i partiti non c’erano”, mentre lo Stato era sul punto di dissolversi, tornano terribilmente utili per capire dove rischiamo di finire (e attuali) per aver fatto del “popolo” – tra i concetti più nobili della tradizione politica occidentale – un feticcio polemico-retorico tanto assoluto quanto vuoto di senso.

 

 

“Luigi e Mario Sturzo: il progetto cristiano di democrazia”. E’ il titolo del convegno in programma a Palermo dal 17 al 19 gennaio per ricordare i cento anni dalla fondazione del Partito popolare italiano. Organizzato da Don Francesco Lomanto, Preside della Facoltà teologica di Sicilia, l’incontro si svolgerà presso la Pontificia Facoltà Teologica “San Giovanni Evangelista” (Corso Vittorio Emanuele, 463 – Palermo). E’ prevista la partecipazione di oltre cinquanta studiosi e ricercatori: da Francesco Malgeri a Dario Caroniti, da Eugenio Guccione ad Agostino Giovagnoli, da Alessandro Campi a Corrado Malandrino, da Flavio Felice a Giuseppe Buttà. I lavori saranno conclusi da Gaspare Sturzo, Presidente del Centro Internazionale di Studi “Luigi Sturzo”.

Sul pensiero e l’opera politica del sacerdote di Caltagirone la bibliografia, anche internazionale, è sterminata. Una buona sintesi è rappresentata dal volume miscellaneo Luigi Sturzo e la democrazia europea (Laterza, Bari-Roma 1990). Allo storico Gabriele De Rosa si deve invece il volume Il Partito popolare italiano (1988, sesta edizione), ancora oggi fondamentale per ricostruire le vicende del popolarismo italiano.

L’Edizione Nazionale dell’Opera di Luigi Sturzo in 43 volumi è in corso di pubblicazione a cura dell’Istituto “Luigi Sturzo” di Roma. La grande parte dei materiali sinora usciti (circa una quarantina di tomi) sono disponibili in formato digitale sul sito dell’Istituto: www.sturzo.it 

Per il programma completo del convegno clicca qui.

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