di Alessandro Campi
Tradizione vuole che sia stato Giulio Andreotti a codificare la dottrina politica dei “due forni”. Allorché spiegò che alla Democrazia cristiana degli anni Sessanta era convenuto, per mantenere la sua centralità, allearsi e stringere patti, secondo la convenienza e necessità del momento, ora con il forno di sinistra (i socialisti) ora con quello di destra (i liberali e, all’occorrenza, anche i missini).
Da allora questa formula è divenuta ricorrente nel linguaggio della politica italiana.
di Alessandro Campi

Tradizione vuole che sia stato Giulio Andreotti a codificare la dottrina politica dei “due forni”. Allorché spiegò che alla Democrazia cristiana degli anni Sessanta era convenuto, per mantenere la sua centralità, allearsi e stringere patti, secondo la convenienza e necessità del momento, ora con il forno di sinistra (i socialisti) ora con quello di destra (i liberali e, all’occorrenza, anche i missini).

Da allora questa formula è divenuta ricorrente nel linguaggio della politica italiana. Non si contano le volte che partiti e leader si sono accusati vicendevolmente di ricorrere ad un simile pratica. Che non consiste tanto nel cambiare alleanze con troppa frequenza, quanto nell’averne diverse contemporaneamente, riuscendo così ad accrescere la propria forza negoziale e il proprio potere. La politica del “doppio forno” è una sorta d’equilibrismo che per riuscire indubbiamente richiede una buona dose di pragmatismo e di spirito opportunistico.

Ma se barcamenarsi tra due forni, per quanto redditizio, è comunque complicato, quanta abilità serve per muoversi addirittura tra tre forni? Esattamente quello che sta facendo in questo momento Matteo Salvini, che non a caso nei sondaggi è in crescita da mesi, oltre ad essere diventato il soggetto politico centrale nell’attuale fase politica.

Il meccanismo che egli ha costruito al momento sembra perfetto, per i vantaggi indubbi che gli ha procurato sul piano politico e dell’immagine. E dunque del consenso (reale e potenziale). In periferia, come è noto, è alleato (storicamente) con Forza Italia, con Fratelli d’Italia e con ciò che rimane della galassia centrista-moderata. E proprio con la formula del centrodestra in questi mesi ha vinto tutto il vincibile sul territorio, avendo come avversari diretti il M5S e il Pd. Ed è questo il primo forno, che ha tutto l’interesse ad alimentare anche perché ormai è lui l’uomo forte della coalizione, non più il Cavaliere.

Il secondo forno, questa volta a livello nazionale, è invece rappresentato dall’alleanza che ha stretto – sotto forma di contratto notarile – con il partito fondato da Grillo. Nato nel nome del cambiamento, il governo giallo-verde – che come avversari in Parlamento ha la sinistra tutta, i berlusconiani e la destra della Meloni – attualmente non se la passa benissimo. Tra insulti, insinuazioni e contrasti di linea su ogni possibile tema, sembra sempre sul punto di saltare. Ma fino alle elezioni europee durerà. E forse anche dopo, magari invertendo la polarità cromatica, quando dovrebbe essere chiaro (stando ai sondaggi odierni) che il verde della Lega vale ormai molto più del giallo grillino.

Ma proprio il voto europeo ci porta al terzo (e più recente) forno salviniano. Quello che sta cercando di costruire mettendo insieme i partiti-movimenti nazional-populisti dei diversi Paesi. Accreditato di un 32-34% in Italia, di questo fronte Salvini vorrebbe essere il leader su scala continentale, avendo a questo punto come avversari diretti le famiglie dei cristiano-popolari (dunque Berlusconi), dei socialisti, dei liberali e dei conservatori (dunque la Meloni che a questi ultimi ha aderito livello continentale, pur essendo la Meloni l’alleato sovranista al quale Salvini sembra guardare sul piano interno con l’idea di staccarla un giorno da Berlusconi e dal centrodestra per portarla sotto la sua ala). Quanto ai grillini, ancora non si è capito con chi si schiereranno in Europa. Certo non con la Lega e i suoi amici sovranisti. Alleati a Roma finché dura, Salvini e Di Maio saranno certamente avversari a Bruxelles.

Tre forni, dunque. Tre diverse reti o formule d’alleanza, a seconda del livello politico sul quale la Lega opera: locale, nazionale, europeo. In ognuno dei quali essa è alleata con coloro che negli altri livelli sono invece i suoi avversari/competitori. Da un lato, chapeau a tanta capacità manovriera. Dall’altro, ci si chiede però quanto possa durare questo continuo gioco di sponda.

La coerenza – è vero – non è una qualità oggi molto praticata dai leader politici contemporanei; né particolarmente apprezzata dagli elettori che li votano o che ne subiscono il fascino. I primi tendono a cambiare idea secondo le circostanze e senza dare troppe spiegazioni per i loro voltafaccia; i secondi valutano i politici su una base che è ormai quasi soltanto sentimentale ed emotiva, e dunque poco badano al rigore dei comportamenti o alla mancata traduzione delle promesse in realtà. Ciò non toglie che non si può essere tutto e il suo contrario per un tempo troppo lungo. Così come non si può stare, politicamente parlando, con questo e con quello e con quell’altro solo perché se ne trae un guadagno immediato. Innanzitutto, gli stessi alleati potrebbero prima o poi stancarsi di un rapporto dal quale a guadagnare è sempre la Lega. In politica viene poi sempre il momento in cui occorre scegliere da che parte stare e, soprattutto, con chi stare.

La data limite per questa scelta dovrebbe essere in effetti rappresentata dal voto europeo-amministrativo del prossimo maggio. Sarà quella l’occasione per vedere quanto siano realistici i sondaggi che attualmente danno la Lega significativamente oltre il 30% (alle politiche del 2018, ricordiamolo, ebbe il 17% e già fu considerato un successo straordinario). Ma soprattutto sarà l’occasione per un chiarimento politico senza il quale la Lega, toccato il picco, rischia di avvitarsi su se stessa e di iniziare quella parabola discendente che ha già portato alla fine veloce di altri leader che sembravano imbattibili e destinati ad un futuro radioso, ma che poi sono rimasti vittime non tanto delle loro ambizioni, quanto della vaghezza, della strumentalità e della contraddittorietà degli obiettivi perseguiti.

Non potendo barcamenarsi all’infinito tra Di Maio, Berlusconi e Marin le Pen, Salvini dovrà alla fine decidersi. M5S o centrodestra? Forza Italia o Fratelli d’Italia? Popolari o populisti? O forse ancora spera, dopo un eventuale trionfo alle europee, di andare da solo con la sua Lega puntando a farne un partito del 40% in grado di svuotare elettoralmente le forze con cui sinora si è alleato? A quel punto, buon per lui, i tre forni potrà anche spegnerli, essendosi nel frattempo scottati, anzi bruciati, tutti gli altri. Ma se qualcosa può valere come paragone o precedente, questo sogno autarchico è lo stesso fatto nel recente passato da un altro Matteo, del quale tutti ci chiediamo che fine abbia mai fatto.

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