di Danilo Breschi

41xK1Jm8f1L__SX333_BO1,204,203,200_Questa raccolta di saggi, dal titolo Liberalismo e democrazia nell’Italia del secondo dopoguerra, e curata da Aurelia Camparini e Walter E. Crivellin (FrancoAngeli, Milano 2015, pp. 210, € 23), si concentra su una preoccupazione che animò il dibattito politico e ideologico dei primi decenni del secondo dopoguerra: coniugare la teoria liberale con quella democratica in modo da attuare compiutamente l’intera gamma dei valori costituzionali.

Si ribadisce così il contributo cruciale di una personalità come quella di Alcide De Gasperi, politico le cui scelte si nutrirono anche di idee liberaldemocratiche assai più robuste di quanto si sia ancor oggi soliti pensare. Meno nota è la figura di Luigi Firpo, di cui non si esaminano gli eruditi studi accademici bensì i vivaci e anticonformisti interventi giornalistici che da intellettuale “militante” firmò per “La Stampa” di Torino. Come viene ben sottolineato da Dino Cofrancesco, sua era una concezione del liberalismo meno incline dell’amico e collega Norberto Bobbio a riconoscere le virtù del socialismo, eppure altrettanto progressista in quanto solerte nella tutela e promozione dei valori della scienza e della laicità.

Dal saggio di Alberto Giordano risalta il contributo dato da Luigi Einaudi anche in chiave costituente, portatore di un’idea liberale attenta a trovare nei meccanismi istituzionali garanzie contro “l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata”. Verrebbe da aggiungere che è stato ben pensata dai curatori l’affiancamento dei due saggi rispettivamente dedicati a De Gasperi e a Einaudi. È dal loro incontro, anzitutto umano, personale, e quindi dal dialogo fra le due culture di cui erano portatori, che fu favorito, fors’anche agevolato, l’inserimento della nascente repubblica italiana nell’alveo del costituzionalismo moderno e contemporaneo. Si è soliti sottolineare, anche a ragione, il ruolo di altre figure e altri filoni ideologici, ma questo volume mi convince che altri apporti ci sono stati, altrettanto influenti, e che è su quest’asse umano e politico, tra De Gasperi e Einaudi, che si è potuto realizzare concretamente quel “compromesso politico-governativo” senza il quale il “compromesso costituzionale”, altrettanto importante, sarebbe rimasto insufficiente o comunque più fragile ed esposto a crisi di rigetto. Giuseppe Sciara passa in rassegna le numerose traduzioni, commenti e studi che sul liberalismo francese d’inizio Ottocento, e in particolare su Benjamin Constant, uscirono tra 1943 e 1946, nella fase genetica del nuovo ordinamento repubblicano. Ne risulta sia l’esigenza diffusa all’epoca di prendere più o meno le distanze dal liberalismo crociano sia l’attrazione crescente esercitata dal socialismo su ex-crociani ed ex-gentiliani, ovvero sulla gran parte degli intellettuali formatisi durante il ventennio fascista.

Dai saggi di Sciara e Cofrancesco emerge un interrogativo importante per chi voglia approfondire lo studio del tipo di liberalismo sviluppatosi nell’Italia del secondo dopoguerra. Secondo Cofrancesco “la cultura azionista e post-azionista rappresenta non un approfondimento e un arricchimento del liberalismo classico ma un dérapage” (p. 204). Va anche detto che esistono non poche voci di un liberalismo italiano che riprende il filone classico, riallacciandosi a John Locke e alla “scuola scozzese” di Adam Smith e soci (si veda, in traduzione italiana, l’ancora valida e interessante sintesi di John Gray). Sarebbe interessante continuare la ricerca avviata e coordinata da Crivellin e Camparini e arricchirla con figure come Sergio Ricossa o Nicola Matteucci.

Per non addebitare oltre misura al ceto intellettuale non va però sottovalutata la scarsa cultura liberale diffusa tra i cittadini e, soprattutto, tra il ceto burocratico-amministrativo in termini di rapporto con lo Stato e di assunzione di responsabilità nell’esercizio delle pubbliche funzioni. Prevalente divenne (o rimase) un approccio di stampo privatistico e familistico (corporativo?) nei confronti delle pubbliche autorità, del loro uso e della loro funzione. Anche in ciò ci si allontanò probabilmente dal liberalismo crociano e dalle sue prescrizioni teoriche e ideali. Sotto questo profilo tornano utili le pagine del saggio di Paolo Bonetti dedicate al “Mondo” di Mario Pannunzio, “un gruppo di pressione politico-culturale di matrice liberale concretamente incidente (anche quando si trovava in infima minoranza) nelle vicende della politica italiana” (p. 89).

Resta il fatto di quanto la storia dell’Italia del Novecento sia stata fortemente marcata, su diversi piani, dall’esperienza dittatoriale fascista. Un’ipoteca che anche questo volume, magari indirettamente, ti fa comprendere sia stata considerevolmente massiccia sul piano delle culture politiche. Anche in termini di referente polemico, eterna minaccia paventata da ogni dottrina politica, liberalismo incluso. Di qui quella peculiare ibridazione ideologica che è stata l’azionismo, soggetto a geometria teorico-politica variabile. In ciò lo studio della lunga vita e dell’imponente opera di Norberto Bobbio resta cruciale, e i due bei saggi di Roberto Giannetti e Aurelia Camparini valgono a mostrarlo e ribadirlo. L’antifascismo post-fascista ha indotto a più riprese a guardare al socialismo marxista ora con un malcelato complesso di inferiorità ora con una matura consapevolezza di adeguamento ideologico ai tempi nuovi del welfare. Un’oscillazione che si spiega bene inserendola nella situazione politica interna e internazionale dell’Italia del bipolarismo da Guerra Fredda. Detto ciò, Giannetti ha ragione nel ricordare come Bobbio, in polemica con marxisti del calibro di Galvano Della Volpe, sin dai primi anni Cinquanta rimarcasse in modo netto che “il problema della democrazia non liberale o totalitaria era un problema reale, altrettanto reale quant’era all’epoca della Restaurazione, quello di un liberalismo non democratico” (p. 154).

Occorre poi aggiungere che dalla multiforme esperienza azionista non scaturisce solo il “gramsciazionismo” che, secondo l’acuta analisi di Cofrancesco, finisce per azzoppare il pluralismo liberale in nome di un certo manicheismo moralistico-ideologico, ma anche un socialismo riformista e liberaldemocratico che si ritrova appunto nel gruppo del “Mondo” dopo il 1955. In tal senso ha ragione Bonetti ad evidenziare una figura come quella di Vittorio De Caprariis, il quale recuperava nei primi anni Sessanta il liberalismo di Croce per contestare la celebre tesi di Einaudi sul nesso indissolubile tra l’ideale morale liberale e le strutture giuridiche ed economiche entro cui esso andava incanalato per concretizzarsi. Crocianamente, per De Caprariis le seconde potevano, e dovevano, essere storicamente mutevoli, ma non per questo avrebbero inficiato il primo. Controversia liberalismo-liberismo che è peculiarità italiana, forse, ma continua ad interrogare l’intero pensiero politico europeo dei nostri giorni. La prematura scomparsa di De Caprariis, a quarant’anni nemmeno compiuti, ci ha privato della possibilità di verificare le possibile evoluzione ideologiche e politiche della sua originale posizione.

Un’attenta lettura dei saggi contenuti in questo volume suggerisce inoltre di tornare ad approfondire una distinzione cruciale nella storia delle ideologie e delle politiche pubbliche che spesso viene invece spacciata per identità, equivalenza o somiglianza: mi riferisco alla distinzione tra socialdemocrazia e liberaldemocrazia. L’accento su aspetti “sociali” e anche “programmatori” non porta necessariamente ad auspicare, più o meno velatamente, il superamento del capitalismo e dell’economia di mercato, ma può anche spingere verso lidi liberaldemocratici quali quelli evocati da De Caprariis o Massimo Salvadori, studioso e giornalista vissuto per molti anni negli Stati Uniti. “Empirismo guidato dalla ragione critica”, questa la definizione che quest’ultimo dava di un liberalismo post-New Deal. Un liberalismo che tratteneva del socialismo quel che un vecchio maestro come Gaetano Salvemini ricordava esserne, a suo avviso, l’essenza: “penso che ci deve essere un po’ di bene per tutti. Questo, cara amica, è il socialismo” (p. 79). Così Salvemini, come ci ricorda Gaetano Pecora nel suo stimolante saggio, in una lettera ad una amica torinese.

Ipotesi interpretativa suggerita da Bonetti e meritevole di ulteriore verifica e approfondimento è quella che il progetto del “Mondo” di un riformismo “liberal-costruttivista”, al di là di alcune sue congenite “ingenuità e illusioni” (p. 96), potesse concretizzarsi con il varo dei governi di centro-sinistra. Fu qui decisivo, in negativo, il ruolo di una Dc non più degasperiana ma che, con Moro e Fanfani, si faceva ventre molle rispetto agli interessi corporativistici di un capitalismo monopolistico e di un settore agrario ancora semi-feudale in certe aree del Paese. Insomma, una “collaborazione senza programma”, in cui laici e socialisti si sarebbero rapidamente ridotti alla ricerca del “potere per il potere, al sottogoverno e all’intrallazzo”, come ebbe a denunciare “Il Mondo” in un editoriale del 14 luglio 1964 (p. 97). Era semmai sbagliato lo strumento (la pianificazione centralizzata), contradditorio in sé? Resta che l’obiettivo non era per tutti i fautori e sostenitori del centro-sinistra il superamento dell’economia di mercato con una di piano, bensì lo smantellamento delle bardature burocratiche e delle crescenti incrostazioni assistenzialistiche che già gravavano sul capitalismo italiano dei primi anni Sessanta.

Dal pensiero di tutti gli autori trattati nel volume, a cui, come detto, altri si potrebbero proficuamente aggiungere, il riformismo italiano contemporaneo potrebbe trarre nuova linfa. Fecondo fu nei primi vent’anni del secondo dopoguerra il dibattito politico-culturale sul rapporto fra liberalismo e democrazia. Una fecondità che per alcuni rimase per lo più sul piano teorico, per altri dette frutti concreti, a cominciare dalla progressiva attuazione di molti istituti previsti in Costituzione. Non scarse bensì corpose furono le tracce di liberalismo nell’Italia della cosiddetta “Prima Repubblica”, senz’altro a livello dottrinale. Oggi pare invece che il riformismo sia ridotto ad un pragmatismo senza idee, o meglio senza un disegno ideale di medio-lungo respiro. Non sono sicuro siano solo i tempi odierni della globalizzazione e della finanziarizzazione ad obbligarci a questo nostro attuale navigare a vista e ad un liberalismo come acquiescenza o piccolo cabotaggio.

 

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